Tornare sui propri passi

di Amedeo Bellodi

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Un avvocato giocatore di pallacanestro, Einstein e… persino l’Universo: per tutti c’è sempre tempo per cambiare idea.

Edwin Hubble al lavoro al telescopio Hooker dell’Osservatorio del Monte Wilson (California, 1937). Credit: Margaret Bourke-White, “The Life Picture Collection”.

Studente particolarmente prestante fisicamente e di eccellenti doti atletiche, ottimo giocatore di basket, nonché boxeur, era portato anche per il baseball; in curriculum un Master in Legge, conseguito a Oxford grazie a una borsa di studio. Sarebbe stata questa oggi la biografia dello statunitense Edwin Powell Hubble (1889-1953) se non avesse deciso a venticinque anni di compiere la sua personale ritirata, convinto che fosse «meglio essere un astronomo di secondo o terz’ordine, piuttosto che un avvocato di prim’ordine». Con questo spirito, affrontò gli studi del dottorato in Astronomia, che conseguì nel 1917. «È propizia perseveranza» vaticina l’I Ching: terminati gli studi e l’esperienza nella fanteria durante la Prima guerra mondiale, Hubble si stanziò all’Osservatorio astronomico del Monte Wilson (California), dove rimase fino alla morte. Che non sia stato un astronomo di «second’ordine» – come diceva – è noto a tutti, se non altro perché uno dei telescopi spaziali più celebri della storia (e tuttora in orbita) è stato battezzato con il suo nome. È bene però evidenziare anche che le sue osservazioni astronomiche hanno fornito la rampa di lancio per stravolgere l’idea che l’uomo aveva di “Universo” e gettare le fondamenta della cosmologia moderna.

Ci vuole anche un po’ di fortuna: nel 1919 presso il Monte Wilson era disponibile il telescopio più grande al mondo. Con questo strumento Hubble concentrò le sue osservazioni sulle nebulae. Agli inizi dei XIX secolo Herschel aveva identificato con questa denominazione alcune nebulosità (pensava fossero nubi di gas e polvere) che, grazie al miglior potere risolutivo delle ottiche, all’inizio del secolo scorso si è scoperto essere immensi agglomerati di stelle. L’interpretazione di cosa fossero questi corpi celesti era tutt’altro che una formalità, tanto che si è soliti parlare di “Great Debate” (Grande Dibattito) in merito all’incontro fra Harlow Shapley e Heber Curtis, avvenuto nell’aprile 1920, volto a risolvere proprio questa diatriba. Con una stringente dialettica, i due astronomi statunitensi argomentarono le loro posizioni in merito alle nebulae: il primo sosteneva che esse si trovassero entro la nostra Galassia, il secondo le considerava invece come “universi isola” esterni alla Via Lattea. Oltre alla reale natura di questi oggetti del cielo, era in discussione molto di più: le dimensioni dell’Universo osservabile.

Una parola di peso fu pronunciata da Hubble quando presentò gli esiti delle sue osservazioni[1]. Egli aveva infatti individuato un particolare tipo di stelle variabili (le Cefeidi) in diverse nebulae. Si tratta di stelle “pulsanti”, che si gonfiano e sgonfiano periodicamente, con una conseguente variazione di luminosità: quando la stella giunge alla sua massima estensione, risulta più fioca; quando si contrae, aumenta in luminosità. Anni prima, l’astronoma Henrietta Leavitt aveva ricavato una relazione empirica che legava il periodo di variazione (il tempo intercorso fra due massimi di luminosità) e la luminosità intrinseca di questa famiglia di stelle che aveva potuto osservare nella vicina Nube di Magellano[2]: questa relazione consente implicitamente di determinare con buona precisione la distanza delle stelle (e quindi dell’ammasso cui fanno parte), tenendo conto di come la luminosità intrinseca si affievolisca all’aumentare della distanza o, per essere più precisi, del suo quadrato. Hubble applicò questa relazione alle Cefeidi individuate nelle nebulae a spirale selezionate, fra le quali la nebula di Andromeda, riuscendo a determinarne la distanza: milioni di anni luce dal sistema solare, decisamente troppo distanti per poter essere parte integrante della Via Lattea. Si trattava di un risultato che cambiava la concezione dell’Universo, al pari della rivoluzione che Copernico aveva compiuto quasi quattrocento anni prima.

La legge di Hubble come pubblicata originalmente nel 1929: la velocità di recessione (km/s) risulta seguire una relazione lineare rispetto alla distanza delle galassie da noi.

La legge di Hubble come pubblicata originalmente nel 1929: la velocità di recessione delle galassie tende a seguire una relazione lineare rispetto alla loro distanza da noi.

Come se non fosse stato sufficiente a scuotere gli animi, di lì a qualche anno Hubble evidenziò un ulteriore risultato osservativo destinato a cambiare il pensiero dell’uomo. Per capirlo, apriamo una parentesi. Pensate di trovarvi di fronte a una macchina lancia palle programmata per lanciarvi una pallina da tennis a intervalli di tempo regolari. Se la macchina è in movimento verso di voi, vi sembrerà che gli intervalli tra le vostre ricezioni si accorcino di volta in volta, poiché le palline percorrono un percorso più breve a ogni lancio: osserverete cioè una frequenza di lanci maggiore di quella programmata. Lo stesso principio è alla base dell’alterazione delle onde sonore della sirena di un’ambulanza: le nostre orecchie sentono, durante l’avvicinamento della vettura, suoni progressivamente più frequenti, che si diradano una volta che l’ambulanza ci avrà superato. Questo fenomeno prende il nome di effetto Doppler e si applica, come per il suono, anche alle onde luminose, facendo sì che alcune caratteristiche dello spettro elettromagnetico (le linee spettrali) modifichino la loro frequenza e compaiano “più rosse” (leggi, a frequenze minori) o “più blu” (frequenze maggiori) a seconda che l’oggetto che emette la luce si allontani o si avvicini, in misura proporzionale alla sua velocità. Basandosi su questo effetto, Hubble riuscì a estrarre dagli spettri elettromagnetici di quarantasei nebulae (chiamiamole con il loro nome, galassie) una misura della loro velocità di recessione. L’esito delle sue osservazioni risultò sorprendente[3]: la velocità delle galassie appariva direttamente proporzionale alla loro distanza. Hubble non si sbilanciò in interpretazioni fisiche dei suoi dati, eppure oggi sappiamo che si trattava della prima evidenza osservativa dell’espansione dell’Universo: non sono infatti propriamente le galassie a muoversi allontanandosi da noi (la legge di Hubble considera velocità relative fra le galassie) ma è lo spazio tra noi e loro ad espandersi. L’esempio classico con cui si cerca di spiegarlo nella maniera più semplice è quello di un palloncino che si gonfia: due formiche ferme sulla sua superficie si troveranno progressivamente più lontane, mentre il tessuto del palloncino si dilata. In questi termini, l’Universo risulta una realtà in evoluzione, una descrizione del cosmo che Albert Einstein aveva escluso, arrivando a correggere le sue equazioni pur di mantenere la concezione statica dell’Universo: tornerà sui suoi passi, riferendosi a quelle sue correzioni ad hoc come al «più grande abbaglio» della sua vita.

Galaxies, galaxies everywhere - as far as the NASA/ESA Hubble Space Telescope can see. This view of nearly 10,000 galaxies is the deepest visible-light image of the cosmos. Called the Hubble Ultra Deep Field, this galaxy-studded view represents a "deep" core sample of the universe, cutting across billions of light-years. The snapshot includes galaxies of various ages, sizes, shapes, and colours. The smallest, reddest galaxies, about 100, may be among the most distant known, existing when the universe was just 800 million years old. The nearest galaxies - the larger, brighter, well-defined spirals and ellipticals - thrived about 1 billion years ago, when the cosmos was 13 billion years old. In vibrant contrast to the rich harvest of classic spiral and elliptical galaxies, there is a zoo of oddball galaxies littering the field. Some look like toothpicks; others like links on a bracelet. A few appear to be interacting. These oddball galaxies chronicle a period when the universe was younger and more chaotic. Order and structure were just beginning to emerge. The Ultra Deep Field observations, taken by the Advanced Camera for Surveys, represent a narrow, deep view of the cosmos. Peering into the Ultra Deep Field is like looking through a 2.5 metre-long soda straw. In ground-based photographs, the patch of sky in which the galaxies reside (just one-tenth the diameter of the full Moon) is largely empty. Located in the constellation Fornax, the region is so empty that only a handful of stars within the Milky Way galaxy can be seen in the image. In this image, blue and green correspond to colours that can be seen by the human eye, such as hot, young, blue stars and the glow of Sun-like stars in the disks of galaxies. Red represents near-infrared light, which is invisible to the human eye, such as the red glow of dust-enshrouded galaxies. The image required 800 exposures taken over the course of 400 Hubble orbits around Earth. The total amount of exposure time was 11.3 days,

Immagine dello Hubble Ultra Deep Field, una piccola regione di cielo (un decimo di quello che è il diametro della Luna visto dalla Terra) in cui il telescopio spaziale Hubble è riuscito a individuare circa diecimila galassie, alcune anche a miliardi di anni luce da noi, a un tiro di schioppo dal Big Bang. Credits: NASA/ESA.

A questo punto le domande si accumulano. Da quando l’Universo si espande? Se immaginassimo di poter premere un tasto rewind, arriveremmo dritti dritti a un momento in cui tutto è condensato in un punto di densità infinita; è a seguito del cosiddetto Big Bang (che, mi spiace deludervi, probabilmente non fu né tanto “big”, né tanto “bang”…) che lo spazio iniziò a “srotolarsi”. Continuerà all’infinito a espandersi? Non è certo, nell’Universo agiscono due forze contrastanti: alla spinta dell’espansione si contrappone la forza di gravità che tende a tenere “legati” i corpi. Esiste una densità critica di materia al di sopra della quale la gravità può essere in grado di frenare l’espansione: circa cinque atomi di idrogeno per metro cubo. Non è uno scherzo; del resto l’alta densità di materia delle galassie deve far media con gli sconfinati spazi vuoti intergalattici. Dire se la densità che misuriamo sia al di sotto di questa soglia non è facile. Le misure suggeriscono valori molto vicini a questo valore, ma ci sono tante incognite che ci impediscono una conoscenza puntuale di cosa c’è nell’Universo; su tutte: energia oscura e materia oscura, vale a dire il 95% del contenuto dell’Universo. Ma cosa succederebbe se la gravità frenasse l’espansione? Una smisurata… ritirata: l’Universo smetterebbe di espandersi e inizierebbe a contrarsi. Così facendo, nel giro di qualche centinaio di miliardo di anni, lo spazio tornerebbe a condensarsi entro un protone. Difficile però stabilire cosa potrebbe succedere in un simile regime estremo, in cui oltre alla Relatività generale (che detta le regole della gravità) entrerebbe in gioco la Meccanica quantistica (che descrive il mondo infinitamente piccolo). A oggi, infatti, una teoria fisica in grado di unire questi due mondi non è stata formulata.

Chi l’avrebbe mai detto che da uno spilungone come Hubble derivasse una rivoluzione intellettuale così profonda da aprire un’infinità di dibattiti scientifici e nuove branche di ricerca? Meritevole di Premio Nobel, non credete? Eppure l’Accademia Reale Svedese delle Scienze ai tempi non considerava l’Astronomia all’altezza di essere reputata una branca della Fisica. Hubble non fu quindi ritenuto adatto a un simile riconoscimento. Solo dopo la sua morte, anche gli svedesi… tornarono sui loro passi. Chissà cos’avrebbe detto Hubble quando nel 2011 altri astronomi vinsero il Premio Nobel per le loro osservazioni in merito all’espansione dell’Universo. Forse qualcosa di più pungente di un «ritirata serena, tutto è propizio».

 

Note

[1] Edwin P. Hubble, “Extragalactic nebulae”, in Astrophysical Journal, 64, 1926, pp. 321-369.

[2] Henrietta S. Leavitt, “Periods of 25 Variable Stars in the Small Magellanic Cloud”, in Harvard College Observatory Circular, vol. 173, 1912, pp. 1-3.

[3] Edwin P. Hubble, “A relation between distance and radial velocity among extra-galactic nebulae”, in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, vol. 15, n. 3, 1929, pp. 168-173.

Autore

  • Unisce orgoglio classicista (voleva dedicare la sua vita alla letteratura greca), curiosità scientifica (è poi finito a studiare astrofisica) e passione per la musica (il pianoforte su tutti).

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