di Ivan Ferrari
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Tecniche attendiste, terra bruciata e strategie di logoramento: la ritirata dei russi permise a Kutuzov, con l’aiuto dell’inverno, di salvarsi dall’impeto dell’esercito napoleonico.
Sin dal celeberrimo esempio offertoci dallo sfortunato re dell’Epiro, i concetti di vittoria e sconfitta nella storia si sono rivelati spesso meno definiti di quanto avrebbe voluto il senso comune. L’inessenzialità inapparente di talune vittorie belliche ha largamente contribuito a fare della Russia la fredda tomba dei più arditi sogni egemonici dell’Europa moderna.
È ben noto e poco sorprendente il fatto che una battaglia persa, seppure rovinosamente, non implichi la sconfitta nella totalità della guerra. Più stupefacente appare invece il fatto che talvolta è proprio una battaglia persa a garantire la vittoria finale, ma ogni cosa è contestuale e nessuna materia di studio lo rivela meglio della storia. Il contesto, in effetti, è spesso più importante e decisivo delle forze e delle manovre belliche messe in atto durante una battaglia campale. Dagli spartani alle Termopili ai vietnamiti nelle giungle di mangrovie, la conoscenza che un popolo ha del proprio territorio si è spesso rivelata più devastante di qualsiasi esercito.
Durante la Campagna di Russia portata avanti dall’Armée napoléonienne, il maresciallo Ney scrisse una lettera in cui affermava che i francesi stavano perdendo una guerra contro la fame e il freddo, invece che contro l’opposta potenza bellica. Fu allora che nacque l’espressione “Général Hiver”, resa famosa da testate ad alta diffusione come Le Petit Journal. L’espressione restò in uso durante i successivi conflitti europei per significare l’asprezza del fronte orientale o una più generale difficoltà nelle manovre belliche dovuta a questioni di clima, di rifornimenti o anche solo di sfortuna. Più volte la conquista della Russia è stato l’obiettivo di uomini potenti che volevano con essa coronare il proprio sogno di un potere globale. Carlo XII di Svezia, Napoleone, il Kaiser Guglielmo II, Adolf Hitler e altri hanno sfidato questo gigante del nord e, sebbene secondo modalità diversissime, ne hanno tratto solo rovina.
Lo zar Alessandro I si era lasciato persuadere da alcuni dignitari di essere l’uomo destinato a salvare l’Europa dal predominio rivoluzionario di Parigi. Sua sorella Ekaterina e l’esule Madame de Staël fomentarono con le loro idee la sua vanità e la sua convinzione di dover combattere a oltranza il proprio avversario. All’apertura delle ostilità, Napole-one credeva che la guerra si sarebbe risolta in una decisiva battaglia campale sul suolo polacco, un’il-lusione molto simile a quella in cui cadde succes-sivamente il Führer con le sue tristi fantasticherie sulla guerra-lampo. Nel 1812, durante la sua marcia contro Kaunas, tenne l’ala destra del proprio esercito in arretramento e rivolta verso Varsavia, in attesa di un avventato attacco delle truppe russe. L’attacco non ebbe luogo ed egli dette allora l’ordine di attraversare il Niemen con meno di una scorta di razioni per quattro giorni e farina per venti.
La Russia aveva sempre avuto come principale debolezza la lentezza con cui metteva insieme le proprie armate. Anche in quell’occasione, il suo esercito era diviso e i francesi speravano di frapporsi presso Vilnius ai due raggruppamenti più vicini, distruggendo prima le forze adunate a sud e poi quelle che sopraggiungevano da nord. La lentezza russa era peggiorata da uno stato maggiore poco addestrato e molto burocratizzato, dall’arretratezza del sistema dei trasporti e dal cieco affidarsi dello zar ai consigli di vari esperti stranieri. Se, però, i comandanti dell’esercito russo erano spesso impreparati, i soldati semplici erano invece uomini abituati a sopportare gli stenti e a valorizzare enormemente il coraggio individuale. Il conte Fëdor Vasil’evič Rostopčin fu uno dei primi uomini nella cerchia dello zar a intuire che la macchina militare russa non avrebbe mai trionfato se fosse stata impiegata per impedire l’invasione, bensì qualora si fosse posta sulla difensiva, attirando il nemico nella desolazione delle steppe. Malgrado Tolstoj manifesti una cattiva opinione su questo personaggio nel suo celeberrimo Guerra e pace, i suoi consigli furono i migliori che Alessandro poté udire. Anche il generale Michael Andreas Barclay de Tolly [1], il quale comandava la prima delle tre armate in cui si trovava allora diviso l’esercito russo, aveva inizialmente pianificato una guerra fatta di ritirate strategiche e di pazienza. Non furono però questi cauti punti di vista a determinare la strategia russa, bensì l’evidente superiorità dell’organizzazione militare avversaria. Quella forza ne rese ciechi i detentori.
La marcia su Vilnius [2] fu un assaggio amaro di ciò che sarebbe avvenuto in seguito. Afflitta dai rovesci temporaleschi cui seguivano periodi di calura in-sopportabile, l’Armée esaurì presto le proprie scorte e si ritrovò con il sistema di vettovagliamento disorganizzato, sicché la truppa si dette al saccheggio. Inoltre la ricerca di uno scontro frontale continuava a non dare frutti, perché i russi continuavano a ritirarsi al fine di trovare un luogo sempre più interno al loro paese dove radunarsi e compattarsi. Napoleone interpretava queste ritirate come un segno di debolezza e, benché deluso, perseverava nel suo ottimismo. Cercando allora lo scontro con Barclay sulla Dvina, costrinse i suoi a un’altra marcia forzata, durante la quale i cavalli morirono in massa. I russi iniziarono subito a mettere in pratica la loro tecnica bellica più efficace sin dall’epoca del Principato di Kiev e Novgorod: la terra bruciata. I contadini incendiavano i villaggi prima di abbandonarli e i soldati facevano saltare in aria i depositi di munizioni che non potevano trasportare. Al nemico non rimaneva mai niente e Napoleone era sempre più irritato davanti al composto e continuo ripiegamento promosso da Barclay. Quando raggiunse Vitebsk [3], dovette anche constatare che tra i suoi uomini andavano diffondendosi alcune malattie. In un primo momento pensò di porre lì i quartieri invernali, ma poi la sua convinzione di dover trovare una grande battaglia da cui trarre una vittoria decisiva lo indusse a riprendere la penetrazione nel territorio nemico fino a Smolensk dove si erano radunati 130mila soldati russi. La Battaglia di Smolensk [4], il 17 agosto 1812, fu sanguinosa e crudele. La città fu devastata dall’artiglieria pesante e i russi subirono il doppio delle perdite rispetto ai francesi, ma persino la prospettiva di cedere una posizione così moralmente importante non li fece desistere dall’ennesima ritirata. Il grosso delle forze russe fuggì infatti, sempre su ordine di Barclay, oltre la riva settentrionale del Dnepr, dirigendosi verso Mosca.
Napoleone tentò più volte di accerchiare i russi durante queste retrocessioni, ma i suoi luogotenenti non seppero mai effettuare le ingegnose manovre a tenaglia che lui pianificava. Le distanze sconfinate della Russia e il loro clima, intanto, stavano sfibrando la truppa. Le continue marce forzate [5] non potevano colmarle e non facevano che aggravare la situazione. Inoltre i polacchi non erano propensi ad aiutare una Francia la cui volontà di liberarli dal giogo russo era quantomeno oscura. I signori della Germania, invece, cominciavano a chiedersi se l’assenza di Napoleone non fosse da loro sfruttabile per riconquistare la propria sovranità. I contadini non si alleavano all’invasore perché questi aveva ormai abbandonato ogni velleità rivoluzionaria e non prometteva loro alcunché. Il 20 agosto lo zar nominò Comandante Supremo il famoso generale Michail Illarionovič Kutuzov, il quale promosse un’astuta propaganda antifrancese e patriottica per poi realizzare un buon fronte difensivo lungo la via per Mosca, presso il villaggio di Borodino, fortificando il passaggio tra un fiume e un bosco. Le piogge resero fangose le distese antistanti la capitale e lo stesso Napoleone si buscò il raffreddore. Il 7 settembre ebbe luogo la Battaglia di Borodino, che Napoleone definì «la più terribile delle mie battaglie»[6]: caddero 35mila francesi e 45mila russi. Alla fine dello scontro, quando i russi tenevano ancora la posizione e si prospettava un secondo combattimento devastante l’indomani… Kutuzov ordinò la ritirata! Non solo da Borodino, ma dalla capitale dell’Impero russo. 250mila persone abbandonarono le loro case. L’invasore entrò indisturbato in una città deserta e quella notte, probabilmente per mano di piromani pagati dal troppo emotivo Governatore Rostopčin, vi scoppiò un enorme incendio. Quasi tutta Mosca [7] fu incenerita. Si salvarono praticamente solo i monumenti posti al centro delle piazze. Lo zar era allora più deciso che mai a sconfiggere il nemico definitivamente e rinunciò per sempre a ogni trattativa, mentre Napoleone si ritrovava a regnare nel cuore di un paese che, pur di non accoglierlo, si era mutato in una distesa immensa di cenere, fango e solitudine… E l’inverno arrivava.
Il 18 ottobre, l’attendismo di Kutuzov venne meno ed egli attaccò l’avanguardia francese a Varutino, mettendola in fuga, ma senza inseguirla e senza cercare uno scontro troppo impegnativo. A fronte della sua prudenza, Napoleone divenne impulsivo e abbandonò le rovine di Mosca. Il 24 ottobre, la sanguinosa Battaglia di Malojaroslavec fu vinta dai francesi, ma ormai era chiaro che essi non avevano più le risorse necessarie alla vittoria. Ora toccava all’invasore ritirarsi e dovette farlo in terre devastate, fra raid di cosacchi e agguati di partigiani che lo flagellavano in una guerriglia logorante, mentre la temperatura crollava rapidamente. Il 3 novembre, la battaglia di Vjaz’ma vide la sconfitta della retroguardia francese, con 4mila caduti e altrettanti prigionieri. Di lì a poco iniziarono le bufere di neve. I cannoni furono abbandonati insieme ai carri del bottino e il cibo divenne talmente scarso che vi furono episodi di cannibalismo. Le successive battaglie combattute a Krasnoi e sui ponti della Beresina videro un’Armée sempre più ridotta e scompaginata perdere migliaia di fanti a causa di un esercito russo ormai perfettamente solido e compatto. Il 14 dicembre, gli ultimi francesi abbandonavano il suolo russo. A Königsberg giunsero appena 50mila soldati, perlopiù sbandati e dispersi. Altrettanti si misero in salvo altrove, ma Napoleone e la sua Grande Armata di 650mila uomini erano una pagina ormai voltata per il libro della Storia.
Note:
1. Cfr. Michael Josselson e Diana Josselson, The Command-er: A Life of Barclay de Tolly, Oxford University Press, Ox-ford 1980.
2. Cfr. Nigel Nicolson, Napoleone in Russia, Biblioteca Uni-versale Rizzoli, Milano 2001, pp. 59-63.
3. Ivi, pp. 76-77.
4. Cfr. Dominic Lieven, La tragedia di Napoleone in Russia, Mondadori, Milano 2010.
5. Georges Lefebvre, Napoleone, Editori Laterza, Roma-Bari 2009, p. 600.
6. Cfr. Nigel Nicolson, Napoleone in Russia, cit., p. 126.
7. Ivi, pp. 150-151.