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intervista di Victor Attilio Campagna e Ivan Ferrari
Per gli autori di oggi è notoriamente difficile, soprattutto in Italia, vedere pubblicati i propri testi. Com’è nata e si è sviluppata la tua esperienza nell’universo editoriale?
«È stato un percorso piuttosto naturale. Sono laureata in filologia, anche se questo può avere un’importanza relativa. Perciò ho iniziato a lavorare su testi in versi degli altri come lettrice in alcune case editrici e successivamente in alcuni premi letterari. Ho avuto poi la fortuna di incrociare dei maestri da cui imparare a esaminare un testo, al di là della mia formazione accademica. Il primo è sicuramente Maurizio Cucchi, responsabile della poesia per Mondadori. Al di là della statura poetica e intellettuale, è anche uno scout di nuovi talenti in grado di riconoscere un buon testo se pur lontano dalla propria “sensibilità”; insomma da lui ho imparato che l’arte non è opinabile, che significa innovare e rinobilitare il linguaggio, sempre all’interno di una tradizione. In molti pensano che “avanguardia” significhi stranezza, contemporaneità a tutti i costi che più spesso si riduce a banale esibizione. Non ricordo chi l’ha detto, ma avanguardia è normalità con un pensiero libero. Anche se potrebbe sembrare paradossale, i classici sono i più “avanguardisti”, perché attraverso il tempo producono effetti e ci riguardano con assoluta contemporaneità. Credo oggi – esclusivamente in poesia – non sia così difficile pubblicare se l’autore è davvero bravo, dalla mia esperienza ho sempre visto i poeti votati all’eccellenza raggiungere il traguardo. La bellezza non è opinabile, la tecnica è indispensabile, come lo studio e la disciplina, anche se la questione fondamentale è la presenza o meno della sensibilità al linguaggio».
La poetica femminile ha dovuto lungamente sgomitare nella storia dell’umanità per essere accolta e diffusa quanto quella maschile. Esiste ancora oggi una discriminazione in tal senso? Se ve n’è alcuno, quale pensi che sia un aspetto della poesia prodotta dalle donne che difficilmente potrebbe essere realizzato da un poeta maschio?
«Non credo nella differenza dei generi. Non esiste poesia maschile o femminile, esiste solo buona o cattiva poesia. Penso che oggi in ambito editoriale le donne siano ancora discriminate e certo non è tutta colpa degli uomini. Una differenza tra maschi e femmine, se proprio dobbiamo parlarne, è per esempio la maggior solidarietà che esiste tra uomini, mentre le donne non sono così inclini a sostenersi a vicenda, se non in comizi politici e di forma. Certo c’è da capirle e io in parte le capisco anche se non condivido alcuni tragitti facili, alcune scorciatoie, chiamiamole così, per rendersi più visibili. Non è un problema morale, più che altro penso che siano metodi che vanno ad aumentare l’insicurezza delle donne. In ogni caso alla fine parlano i testi, per cui non mi importa più di tanto la questione. Detto ciò non confido in una distinzione linguistica o tematica tra autori maschi e femmine, penso a Szymborska per esempio, le sue poesie potrebbero essere state scritte tranquillamente da un maschio. Le donne possono avere il limite del “sentimentale”, che spesso diviene sentimentalismo, non solo in amore. C’è spesso un eccesso di simbolismo. È un altro dei motivi, a mio avviso, per cui a tutt’oggi ci sono meno autrici valide rispetto agli uomini».
I tuoi componimenti si connotano per una forte componente mnemonica che non teme di personalizzare il testo al punto da renderne incomunicabili le sensazioni. La poesia da sempre oscilla tra il rischio di precipitare nel solipsismo e il rischio di, per così dire, posporre l’autore al lettore. Cosa pensi del rapporto tra l’io narrante e il testo poetico?
«Sinceramente non credo che i miei testi siano così “incomunicabili” a livello di sensazioni. Sulla faccenda del solipsismo dobbiamo intenderci, credo sia più che naturale che un autore proponga una sua personale visione ed esperienza, ma non è questo che conta. Ciò che importa è che quel dato intimo o autobiografico abbia la forza di diventare collettivo, che un individuo leggendoti pensi: “Anch’io ho provato questa cosa qui”. I dati biografici, privati, intimi devono rientrare per forza in una narrazione, che sia in prosa o in versi, per il semplice motivo che il lettore non è un idiota ed è perfettamente in grado di sentire l’autenticità della visione. Non vedo come ciò possa avvenire se non attraverso un’esperienza che hai provato sulla tua pelle. Il punto è che l’io narrante deve in qualche modo diventare un “noi”. Direi piuttosto che spesso il problema è il contrario, a livello di scrittura, e cioè gli autori non rischiano, non si mettono a nudo, non superano, come ha insegnato Wallace, quella complessa linea di demarcazione tra il preservarsi e il mettere in scena la vergogna, ciò che hai provato in modo verticale, spietato, disturbante. Ciò non significa assolutamente mettere in piazza le proprie brutture, ma trasformare l’ordinario in lirico. Io non sono ancora riuscita a farlo e lo vivo come un limite, altro che solipsismo, essere all’altezza (anche) della propria paura: questa deve essere la sfida per uno scrittore».
Un aspetto che molto si è evoluto nella poesia contemporanea è quello materico, corporale. In quali modi il corpo genera poesia?
«In un’epoca in cui si sta craccando anche il codice del cervello, non vedo come la poesia possa fregarsene. Voglio dire che il materico sta riguadagnando la sua rispettabilità, rispetto ai luoghi comuni che delegano molto allo spirito, gran produttore di dogmi: e infatti poi si vede come va a finire. Direi che il corpo è fonte primaria di poesia, recepisce tutto senza mediazioni, è un termometro assolutamente affidabile, non ti inganna, non vuole sedurti, non dice falsa testimonianza, non dice che sta bene se sta male e viceversa, è carne, muscoli, ossa. Ed è quindi straordinario lavorare su questo tipo di sincerità, tentando di renderla tecnicamente ambigua, evocativa. C’è un mio verso che recita: “Il corpo non ha sogni, se capite ciò che voglio dire”».