di Michele Lavazza
///
Nella riflessione di Rousseau lo sviluppo della civiltà umana e la sua storia sono elementi essenziali della dottrina morale e politica, ma anche il luogo di una profonda ambiguità.
Jean-Jacques Rousseau non fu un pensatore rigoroso. Le sue tesi si contraddicono spesso e nell’argomentazione l’impeto retorico prevale di frequente sulla precisione analitica. Se Kant poté vedere in lui «il Newton della morale» fu per il profondo acume di alcune intuizioni, e non per aver dato unità e coerenza organica allo studio filosofico dell’azione umana. Tuttavia – anche oltre l’innegabile, enorme ricchezza di spunti isolati e idee giustamente rimaste immortali che Rousseau produsse – nella sua opera si può scorgere una sistematicità. Se si guardano quelli che possono essere considerati i suoi tre principali testi morali e politici – il Discorso sulle scienze e le arti (1750), il Discorso sulla diseguaglianza (1754), il Contratto sociale (1762) – si vede Rousseau svolgere un percorso dalla struttura molto precisa.
In queste opere Rousseau elabora una ricostruzione ideale della storia del genere umano dalla condizione naturale fino al culmine del suo sviluppo, incarnato dall’Europa del XVIII secolo; e tale storia mette a sua disposizione tutti gli elementi necessari per edificare una dottrina politica. Il primo discorso è un formidabile attacco al pregiudizio degli uomini colti e civili secondo cui la civiltà e la cultura sarebbero ciò che ha sollevato l’essere umano dall’abiezione della condizione bestiale al fulgore della virtù sotto la luminosa protezione della conoscenza e della tecnica. Per Rousseau, tutto al contrario, il passaggio dalla condizione semplice e austera della vita primitiva al sistema di artifici e formule di cui si compone la civiltà è stato il passaggio dalla schietta sincerità di uomini virtuosi perché trasparenti al vizio di un’umanità presso cui il linguaggio e le maniere rendono impossibile giudicare della fedeltà delle apparenze (dei comportamenti) alla realtà (ai sentimenti): «Prima che l’arte avesse modellato le nostre maniere e insegnato alle nostre passioni un linguaggio controllato, i nostri costumi erano rozzi, ma naturali. […] La natura umana, in fondo, non era migliore; ma gli uomini trovavano la base della loro sicurezza nella facile penetrazione reciproca»1.
La storia della decadenza dell’Egitto, della Grecia, di Roma è concretamente la storia di come il raffinarsi dei costumi sulla scorta del progresso delle scienze e delle arti è stato, al contempo, il corrompersi dei rapporti tra individui sempre più menzogneri e subdoli.
Il secondo discorso, il cui titolo per esteso è Discorso sulle origini e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, articola con maggiore profondità la stessa genealogia. Tutto comincia, nella ricostruzione consapevolmente congetturale di Rousseau, con esseri umani che vivono isolati, si procurano con le loro sole forze ciò di cui hanno assoluto bisogno, si incontrano casualmente e non comprendono la relazione tra l’atto sessuale e la riproduzione, cosicché non conoscono nemmeno la famiglia. La sottomissione di un uomo a un altro è impossibile, poiché richiederebbe al dominatore un controllo costante sul dominato, mentre al secondo basterebbe attendere che il primo si addormentasse per ucciderlo o per fare «venti passi nella foresta» e riguadagnare la sua libertà.
A questo stadio «naturale» gli uomini hanno pochi bisogni e perciò riescono a essere felici; basta loro di averli soddisfatti, e non si curano che qualcun altro possieda di più o di meno. Essi vivono semplicemente, e se qualcuno realizza un’innovazione tecnica essa, per la mancanza del linguaggio e dell’educazione, muore con lui.
Tuttavia, gradualmente, alcune difficoltà fuori dall’ordinario devono costringere gli uomini ad associarsi per difendersi con più efficacia. Da ciò nasce l’istituzione dei rapporti familiari, di qualche abbozzo di proprietà privata e – benché non sia facile dire se servano più le idee per sviluppare le parole o le parole per sviluppare le idee – nasce il linguaggio. Gli uomini iniziano a paragonare se stessi agli altri e si origina la prima vanità. Collaborando essi riescono a procurarsi maggiori vantaggi, ma così facendo si rendono dipendenti dall’inessenziale e la comodità già degenera in vizio. Gli strumenti tecnici permettono non solo di moltiplicare le possibilità di appropriazione, e quindi a uno di accumulare quanto basterebbe per due, ma anche di separare la proprietà individuale dal lavoro individuale: con l’agricoltura e la metallurgia, il possesso della terra e dei mezzi di produzione consente l’arricchimento anche di chi non si sporca le mani con il lavoro.
Quando ormai il denaro ha reso possibile, e anzi reale, la riduzione in schiavitù di alcuni uomini da parte di altri, distruggendo l’uguaglianza naturale, e quando da questo sono già nate rivolte, violenze e vendette, è allora che i più ricchi e potenti si producono in un’invenzione ingegnosa e perversa: l’istituzione di un patto sociale che, sotto l’apparenza di un accordo equo e volto a tutelare tutti, ufficializza e rinforza con mezzi concreti la situazione di diseguaglianza già di fatto data. Gli uomini, «grossolani, facili da lusingare, che, d’altra parte, avevano troppe questioni da dirimere tra loro per fare a meno di arbitri, e troppa avarizia e ambizione per potere a lungo fare a meno di padroni […] corsero incontro alle catene convinti di assicurarsi la libertà»2.
Quanto al Contratto sociale, esso costituisce il coronamento del percorso di Rousseau in quanto definizione di un patto equo in luogo del patto iniquo. La proposta è che nel gesto fondativo della comunità politica, il contratto sociale appunto, ognuno ceda a tutti gli altri senza riserve le sue prerogative, i suoi beni, diritti e doveri, e così facendo riceva lo stesso da tutti gli altri. «Poiché non c’è un associato sul quale non si acquisti lo stesso diritto che gli si cede su se stessi, si guadagna l’equivalente di tutto ciò che si perde e più forza per conservare quello che si ha»3. Ognuno ha il massimo interesse a rispettare il suo prossimo, perché questa è la sola garanzia che ha di essere rispettato lui stesso.
L’uguaglianza della condizione naturale è perduta per sempre, Rousseau non ritiene che si possa tornare indietro: «La natura umana non retrocede, né mai si può tornare al tempo dell’innocenza e dell’uguaglianza se da esse ci siamo allontanati una volta»4. Ma l’uguaglianza è recuperata su un piano diverso, ancora nella sua pienezza: non più come uguaglianza naturale, bensì come uguaglianza sociale.
Ma che ruolo ha, allora, lo sviluppo graduale dell’uomo dalla natura alla civiltà nel pensiero di Rousseau? Se niente può essere riportato indietro nell’entropica genealogia dell’uomo, a cosa serve uno studio così attento delle origini?
Rousseau dà una risposta a questa domanda nella prefazione del Discorso sulla diseguaglianza. La morale, egli afferma, ha bisogno di conoscere gli uomini per dar loro indicazioni su come agire; e per conoscere gli uomini bisogna conoscere la loro storia, o almeno, tentando di ricostruirla, chiarire la natura delle forze in gioco.
Eppure Rousseau conserva un’importante ambivalenza nel trarre da questa storia i principi di una teoria morale e politica. «L’uomo che medita», scrive egli in un passo equivoco e cruciale, «è un animale depravato»5. L’uomo, in quanto pensa, è senz’altro una negazione e un superamento dell’animale; e l’affermazione progressiva di ciò che vi è di umano nell’uomo è senz’altro la progressiva castrazione di ciò che vi è in lui di animale. Ma perché depravato? Un termine così fortemente connotato da un punto di vista morale suggerisce un’idea che vi è realmente, a più riprese, in Rousseau: l’idea che lo stato di natura, la condizione iniziale in cui l’uomo era davvero un puro e semplice animale, sia stato l’ultimo luogo felice, e che le tecniche, il linguaggio e la civilizzazione abbiano rappresentato una vera e propria caduta.
Ed ecco quindi tutte le contraddizioni di Rousseau risolte in un’unica ambiguità: lo stato di natura è ora ciò da cui ci si deve allontanare per realizzare la pienezza della vocazione umana nella società, ora un paradiso perduto che viene ricordato con nostalgia, come un giardino di pace opposto al caos violento dell’odierna corruzione. Dunque, proprio per via di questa oscillazione di fondo, la libertà è concepita ora come l’obbedienza alla legge che ci si è dati da sé nell’ambito di un contratto sociale equo, ora come l’originaria indipendenza dell’uomo, solo davanti alla natura. La virtù è ora il rispetto reciproco nei vincoli sociali, ora la capacità di disinteressarsi dei rapporti per giudicare di sé senza riferimento comparativo ad altri. La scienza e l’arte sono ora gli strumenti dell’emancipazione dell’uomo dalla precarietà dell’esistenza delle bestie, ora le catene delle comodità che cancellano gli stimoli della vita attiva e la trasformano in accidiosa mollezza.
La pedagogia dell’altro capolavoro rousseauiano, Émile (1762), riassume e ripresenta queste tensioni. Se la storia dell’umanità (e pure, forse, dell’individuo) è la storia di uno sviluppo graduale cui non appartiene di invertire il senso di marcia, Rousseau non ebbe però la radicalità di spingere questa concezione alle sue estreme conseguenze, e di lasciarsi definitivamente alle spalle una visione idealizzata della natura. Convinto dell’irreversibilità dell’evoluzione dell’animale uomo, e disposto a progettare tutto un sistema politico per affrontarne le conseguenze, egli non rinunciò a stigmatizzarla come depravazione, e a lamentarla contro la purezza dell’origine in una disperata teodicea – «Tutto è bene quando esce dalle mani dell’Autore di tutte le cose, tutto degenera tra le mani dell’uomo»6.
Note
1 J.-J. Rousseau, Discorso sulle scienze e sulle arti, in Id., Scritti politici, vol. I, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 7.
2 J.-J. Rousseau, Discorso sulla diseguaglianza, in Id., Scritti politici, cit., pp. 187-188.
3 J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, a cura di R. Gatti, BUR, Milano 2010, p. 67.
4 J.-J. Rousseau, Rousseau giudice di Jean-Jacques, In Id., Opere, Sansoni, Firenze 1972, p. 1284.
5 J.-J. Rousseau, Discorso sulla diseguaglianza, cit., p. 146.
6 J.-J. Rousseau, Émile, tr. it. di M. Valensise, BUR, Milano 2009, p. 39.