Oltre il conoscibile

di Ivan Ferrari

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Il cammino di crescita spirituale deve superare persino gli ostacoli del metodo filosofico e del credo religioso. Ibn ʿArabī, il pensatore mistico ammirato da sûfi e teologi del calibro di Averroè, addita un cammino che passa attraverso l’unione con Dio, nel segno dell’amore poetico.

Ibn ʿArabī, noto in Occidente come Doctor Maximus, nacque a Murcia nel 1165 e morì a Damasco nel 1240. Studiò a Siviglia e a Ceuta e divenne, appena quattordicenne, un noto teologo. Fu così che il settantenne Averroè volle incontrarlo a Cordova per misurarne la conoscenza. Quando lo ebbe d’innanzi, gli chiese a bruciapelo: «Ci si arriva?», e il ragazzo gli rispose con sicurezza: «Sì e no». Con ciò, come le sue opere successive spiegheranno chiaramente, intendeva dire che il razionalismo di stampo aristotelico coltivato dal vecchio filosofo non era sufficiente a cogliere il senso della Rivelazione. Trascorso molto tempo nella penisola iberica e nel Maghreb, discutendo con sûfî e teologi, nel 1198 fu spinto a est da una visione. Viaggiò molto, fino a stabilirsi definitivamente a Damasco dove incontrò il più grande poeta mistico della letteratura persiana medievale: Jalāl al-Dīn Rūmī. In questo periodo completò il suo capolavoro: lo al-Futūḥāt al-Makkiyya, ossia le Rivelazioni della Mecca. Si tratta del testo più importante dell’esoterismo islamico.

Il motore del percorso spirituale di Ibn ʿArabī fu la ricerca di un superamento e qui sta il nesso che ho riscontrato tra questo argomento e l’esagramma del mese. Egli voleva procedere oltre le conquiste religiose dei sacerdoti e quelle conoscitive dei filosofi, conquiste alle quali la maggior parte degli intellettuali si lega al punto da non riuscire più a progredire, interrompendo il proprio percorso di crescita spirituale. La religione istituzionale o popolare da un lato e la ragione dall’altro non potevano ai suoi occhi pervenire a una corretta e piena conoscenza della realtà ultima. La via che egli indicò ai suoi seguaci per raggiungere questa verità ulteriore fu la mistica e i linguaggi tipici della mistica sono da sempre la musica, la danza, le posture della meditazione, gli enigmi e la poesia. La poesia e la danza sono i linguaggi mistici più stimati dai sûfî e dai dervisci. Costoro asserirono che ogni strada, ogni ambito della vita, possa indirizzare alla comprensione del mondo divino. Gli individui devono solo capire quali vie o sequenze di vie sono più adatte alle loro esigenze conoscitive personali e non fermarsi davanti agli ottenimenti tratti da una se questi, per quanto grandi siano, non li hanno ancora condotti alla piena coscienza di sé e del trascendente.

POESIA_Danza dei dervisci Miniatura del XVI secolo_Colore

Danza dei dervisci – Miniatura del XVI secolo

Un’altra opera importante di Ibn ʿArabī fu il Tarjumān al-ashwāq, cioè Il Traduttore dei desideri, una raccolta di poesie d’amore ispirategli da Niẓām ʿAyn al-Shams, una bella e acuta fanciulla che il mistico incontrò alla Mecca. Un altro superamento tipico di tutti i misticismi fioriti nel corso della storia umana è proprio quello amoroso. La cultura hindū, che con quella islamica non ebbe di certo rapporti esclusivamente conflittuali, fu una delle prime a sviluppare una poetica nella quale il microcosmo amoroso umano diventava simbolo del e guida verso il macrocosmo amoroso che connette il mondo del molteplice all’unico Assoluto. L’unione degli amanti è, nelle Upaniṣad[1], il preludio alla realizzazione di un’unione totale, intesa come crollo della molteplicità apparente nel rivelamento del sé a se stesso in quanto unica realtà autentica. Nella celebre Centuria d’amore, Amaruka[2] affermava che anche l’amore più passionale sfocia nella contemplazione. Non pochi passi della poetica di Ibn ʿArabī ricordano modalità espressive e metafore tipiche della poesia classica indiana. Per esempio la parte in cui egli paragona il sorriso dell’amata a una lama lucente che gli trafigge il cuore[3] o quando afferma che le sue sopracciglia siano archi tesi a scoccare sguardi più penetranti di qualsiasi freccia[4].

Allo stesso modo, il centro della filosofia di Ibn ʿArabī è che tutti gli esseri sono essenzialmente uno con Dio, nonostante l’apparente difformità che intercorre tra gli uni e gli altri, così come tra essi tutti e l’Assoluto. L’amore, in quanto apertura all’alterità, consente all’amante di ritrovarsi nell’amato, di scoprirsi come già presente in esso, da sempre. Agli occhi del mistico che esplora fino in fondo la via dell’amore, la divinità si configura intuitivamente come la comune radice di tutti gli enti, l’unica parte di essi realmente e pienamente esistente. Ne consegue un panteismo amoroso che, inutile precisarlo, fu molto inviso ai teologi dell’Islām più ortodosso, nulla dicendo dei fondamentalisti. I seguaci di Ibn ʿArabī sostenevano che tutte le religioni fossero valide[5] e che anzi sia spesso sciocco limitarsi a considerarne sentitamente una sola, perché tutte le immagini di Dio sono vere tanto quanto lo è l’assenza di ogni immagine. La Creazione è la forma di Dio che in ogni sua più infinitesima parte si manifesta necessariamente. Dio è la sostanza occulta delle cose che supera la loro immanenza, la loro struttura limitata, pur ponendosi al centro di esse. Esso è in ogni cosa e ogni cosa è il suo nome, poiché l’Assoluto è il punto ultracosmico in cui gli opposti si fondono e risolvono coerentemente. L’uomo si configura in particolare come il momento in cui l’Assoluto contempla se stesso e si esplora infinitamente.

Il Traduttore dei desideri è un testo oscuro, astratto e caratterizzato da un immaginario molto lontano dal gusto poetico occidentale. Nondimeno, come tutte le migliori creazioni della poesia persiana, esso riesce gradevolissimo ai nostri occhi. Il centro concettuale dell’opera è che l’uomo debba trovare Dio nel proprio cuore e raggiungere un momento di estasi in tutto simile a quello descritto dalle Enneadi di Plotino, durante il quale il mondo fenomenico del molteplice è sospeso in un istante di beata incoscienza in cui l’unica presenza reale si rivela quella dell’Uno. Ibn ʿArabī credeva che l’approccio amoroso fosse particolarmente adatto a un islamico, poiché l’amore è il sentimento più esaltato dal Corano[6]. È stato più volte osservato come in questo testo i sentimenti ispirati dalla donna amata e dalle sue virtù ricordino da vicino la corrente poetica dello stilnovismo, tanto che alcuni studiosi si sono domandati se e come questo genere di componimenti possa avere successivamente influenzato gli autori italiani che le dettero origine. Non mi addentro nella questione, ma tengo a evidenziare che un nesso tipologico esiste e che dimostra quanto questo genere di emozioni siano una categoria del pensiero umano tra le più affascinanti che da sempre esistano.

E poiché credo che quest’opera debba essere letta interamente da chiunque ami il genere e non l’abbia ancora avuta tra le mani, e credo anche che ogni sua parte sia davvero notevole, il componimento tratto da essa e proposto al lettore della nostra beneamata rivista è il primo. Anche questa mia scelta è un invito a superamento.

I
1) Potessi mai essere certo ch’essi
han contezza del cuore che possiedono!
2) E il mio cuore potesse mai sapere
che valichi montani essi han varcato!
3) Tu pensi che sian vivi,
o credi che sian morti?
4) Gli amanti, nell’amore,
smarriscono la strada e se medesimi.

Note

1 Cfr. Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, V 2. 1.

2 Cfr. Poesia d’amore indiana, a cura di Giuliano Boccali, Marsilio, Venezia 2002, p. 123.

3 Ibn ʿArabī, L’interprete delle passioni, a cura di Roberto Rossi Testa e Gianni De Martino, Urra – Apogeo s.r.l., Milano 2008, componimento 29, versi 14-15.

4 Cfr. ibidem 50,3.

5 La chiarezza insistente di Ibn ʿArabī sull’uguaglianza delle fedi è commovente. Cfr. soprattutto i passi 11,13-15; 12,3 e 13,12.

6 Cfr. ibidem, 11,15.

Autore

  • Laureato in filosofia, redattore della Rivista e socio collaboratore dell'Associazione culturale La Taiga dai giorni della loro fondazione, ha interessi soprattutto storici e letterari.

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