di Lorenza Dardanello Tosi
///
All’uscita da scuola, lo vide immediatamente. Era sul marciapiede di fronte, unico punto fermo nel convulso movimento del traffico di Napoli. Aveva gli occhi puntati su di lei come se già l’avesse vista prima ancora della sua comparsa. Per un momento, che si dilatò forse appena oltre il lecito, rimasero fermi a guardarsi attendendo ognuno l’iniziativa dell’altro. Poi lei sorrise, si guardò intorno e attraversò la strada.
– Ciao – gli disse, quando l’ebbe raggiunto.
Luigi sembrò inizialmente ritrarsi, quasi trattenendo il respiro, quindi si lasciò sfuggire un sorriso un po’ goffo ed esalò a sua volta un “ciao” che andò morendogli in gola. Il silenzio che seguì si fece immediatamente insostenibile, per cui si affrettò a chiedere:
– Devi andare a casa subito?
– Be’, posso arrivare anche un po’ più tardi – rispose Marta, guardinga.
Si avviarono in direzione di via Cimarosa, quasi avessero tacitamente concordato il luogo più adatto al loro incontro improvvisato.
Camminando, si faceva meno pressante il bisogno di parlare, per cui passò qualche minuto prima che Luigi si decidesse a confessare:
– Io ti ho aspettato anche altre volte all’uscita dalla scuola.
Marta meditò per un momento su quelle parole, poi replicò:
– Veramente, un paio di volte ti ho visto… ma non ero tanto sicura che tu fossi lì per me.
La menzogna calò tra di loro e ricominciò a tessere la sua eterna e inesausta ragnatela.
– Anch’io non ero sicuro che tu avessi voglia di vedermi, perciò non ti ho mai fermata.
La ragnatela s’arricchì di un nuovo incrocio di fili viscosi.
Marta alzò gli occhi su di lui e per la prima volta si guardarono sorridendo apertamente. Quel sorriso spazzò via all’istante la ragnatela con tutte le sue trappole, quasi fosse stata investita da una ventata purificatrice, e l’innocenza di quello sguardo creò, tra di loro, una complicità nuova di zecca. Il loro passo si fece più sciolto e sembrò che la barriera che li aveva separati fosse stata abbattuta una volta per tutte.
Salendo verso il Vomero, il profumo dei tigli li stordì e un’energia giocosa e stuzzicante passò leggera dall’uno all’altra, divertendosi a solleticare loro il cuore e a inebriarli di gioiosa allegria.
***
Rientrando in casa, Marta salutò a gran voce e andò a buttare lo zaino dei libri ai piedi del letto in camera sua. Fiore la seguì e le chiese, incuriosita:
– Che t’è successo? Hai vinto alla lotteria?
– Perché? – chiese Marta di rimando, facendo la finta tonta.
– Mah, hai un’aria così… insomma, che cosa ti è successo?
Marta andò alla porta, sbirciò a destra e a sinistra, quindi la richiuse senza fare rumore. Si voltò verso Fiore, si illuminò di un sorriso raggiante, andò a sedersi sulla sponda del letto e disse, scandendo le parole:
– Ho il fidanzato anch’io!
Fiore spalancò gli occhi e scoppiò in una risata mista di gioia e di sorpresa.
– Ma no! – esclamò. – Davvero? Chi è, chi è? Racconta!
– Prometti che non lo dirai a nessuno?
– Prometto! – disse Fiore, pregustando, in un angolo del cuore, la primizia che le veniva offerta. D’altronde, in qualità di sorella maggiore trovava giusto che le venisse accordato questo privilegio.
Valutata con lo sguardo la sua sincerità, Marta si decise:
– E’ Luigi – sussurrò.
Fiore spalancò gli occhi sorpresa, quindi esclamò:
– Luigi! Luigi Celotto, vuoi dire?- e, al cenno affermativo della sorella, si lasciò sfuggire un risolino e commentò:
– Quello spilungone?
Il sorriso di Marta si spense di colpo. Spilungone? L’immagine di Luigi si presentò nitida alla sua mente: sì, in effetti era alto, sì, magari un po’ magro…
– Trovi che sia uno spilungone? – chiese, e nella sua voce si poteva sentire il peso di una minaccia incombente.
– Be’, insomma, non puoi negare che sia un lungagnone! Sembra una cervellatina!* – rispose impietosamente la sorella, con un mezzo sorriso di compatimento.
[* Termine napoletano per indicare una salsiccia lunga e sottile.]
Nei giorni seguenti, questa conversazione planò nel cuore di Marta, raggiungendo lentamente il buio e l’oblio dei piani inferiori, ma depositando, al passaggio, piccoli detriti che tendevano a emergere in superficie nei momenti meno opportuni.
Ad esempio, ogni volta che trovava Luigi ad aspettarla davanti alla scuola, la prima immagine che affiorava alla sua mente era quella di una lunga cervellatina, e, anche se quel fastidioso pensiero veniva immediatamente sostituito da un’ondata di gioia prorompente, non riusciva a eliminarlo del tutto dalla sua coscienza: si installava lì, in un angolo, e, seppure con discrezione, rodeva rodeva con la tenacia di un topolino.
A questo si aggiungeva il fatto, non trascurabile, che Fiore, come d’altronde era prevedibile, s’era guardata bene dal mantenere la promessa. Per cui, in quei giorni, ogni volta che Marta rientrava in casa veniva impietosamente accolta da un odioso: “E allora, come va con la tua cervellatina?” Un benvenuto che poteva esserle rivolto da Fiore o da Alberto, suo fratello, quando non, più raramente, dal suo stesso padre. Solo sua madre, evidentemente più sensibile e discreta, si rifiutò di unirsi alla congrega dei dileggiatori.
Andò a finire che Marta, pur di non continuare ad alimentare quelle seppur benevole frecciate, imparò dolorosamente a ignorarne la provocazione, la cui miccia a poco a poco si spense per mancanza di benzina.
Ma la sua eco rimase. E, seppure in misura minima, continuò a corrodere il piacere che provava ad incontrare Luigi.
Ingannando se stessa, Marta trovava ogni volta una scusa buona per dirigere i loro passi verso luoghi in cui difficilmente avrebbero incontrato amici o famigliari. E le passeggiate al Vomero vennero a poco a poco abbandonate perché, trattandosi di un luogo frequentato da giovani coppie di studenti e, sovente, anche da Fiore e da Alberto, quando vi si recavano la preoccupazione d’essere vista insieme a Luigi la distraeva dal piacere della sua compagnia.
Eppure Marta gli voleva bene. Lo sapeva senza ombra di dubbio ogni volta che, abbracciata a lui sulla panchina di qualche viale lontano da casa, affondava il viso nel suo collo e si beava del suo odore di caldo, di intimità, persino, ogni tanto, di sudore, insomma, di dimensioni sconosciute e, per lei, misteriose. In altre parole, di “suo” e di nessun altro.
Sapeva di volergli bene quando si guardavano negli occhi e guidavano le loro anime in una comunicazione intensa e profonda, che non aveva bisogno di parole, né di spiegazione alcuna, bastando a se stessa, e ricca di tutto ciò di cui avevano bisogno.
In quei momenti, Luigi avrebbe potuto essere magro o grasso, lungo o corto, giovane o vecchio, bello o brutto, e Marta non se ne sarebbe accorta. Ciò che li univa andava ben al di là delle forme: era l’ancestrale impulso che attira – calamita nata con l’uomo – gli opposti l’uno all’altro, e respinge i simili, né più né meno di quanto accade all’atomo.
Ma non appena veniva il momento di rientrare, e insieme si scioglievano dall’abbraccio che li aveva trasportati nell’unica realtà degna di questo nome – l’amore -, Marta non poteva evitare di accorgersi – quasi in un doloroso risveglio – che sì, Luigi era forse un po’ troppo alto, e sì, era davvero esageratamente magro.
Quella consapevolezza la spingeva ogni volta ad affrettare il commiato, quasi che, salutando Luigi frettolosamente, le diventasse possibile liberarsi del fardello che le pesava sul cuore semplicemente affidandolo a lui, che lo avrebbe portato via con sé scomparendo al suo sguardo.
Ma alla vista del cuore – che è molto più acuta, e cercava ormai da tempo di comunicarle di che cosa si trattava –, quel fardello aveva un nome preciso, anche se lei si ostinava a rifiutarsi di sentirlo pronunciare. Venne il giorno, però, in cui quella verità – com’è destino di tutte – le si presentò in tutta la sua crudezza.
Stava salutando Luigi con un bacio sulla guancia – lei allungata verso di lui, con il collo teso e in punta di piedi, lui goffamente ingobbito a venirle incontro dall’alto – quando, con la coda dell’occhio, Marta intravide Alberto che, sul marciapiede di fronte, proseguendo il tragitto verso casa, girava la testa a guardarla con un sorriso sornione stampato sulla faccia.
Ed ecco, fu proprio l’urgenza con cui congedò Luigi, e la fretta che la spinse a girargli le spalle e ad allontanarsi da lui, che le rivelarono di colpo la vera protagonista fra i sentimenti che albergavano in lei. La vide là, come al centro di un palcoscenico, unica, innegabile e incontrastata: la vergogna. Per la prima volta, Marta prese coscienza che almeno una parte di lei – e non quella minoritaria – si vergognava di Luigi.
Tornando verso casa, quel giorno, sentì distintamente la confusione che la abitava: non poteva negare di volergli bene, ma ora, allo stesso tempo, non poteva negare di vergognarsi di lui.
A casa, com’era prevedibile, tutti ormai sapevano che cosa aveva visto Alberto. La presero in giro bonariamente, ma ogni loro parola graffiò la sua anima come se fosse stata intinta nell’acido. L’appellativo “cervellatina” rinacque dalle sue ceneri con rinnovata energia, e il tormento si protrasse più di quanto Marta riuscisse a sopportare.
Proprio questo fu il motivo per il quale, un giorno di primo autunno, accettò d’impulso l’invito di Fiore a ritrovarsi, insieme ad altri amici, al Vomero, e a trascorrere insieme il pomeriggio. Sapeva bene, Marta, che in quelle stesse ore era d’accordo con Luigi d’incontrarsi altrove, ma cacciò via il pensiero, non senza una fitta di dolore, ripromettendosi di trovare in seguito una scusa credibile per il mancato impegno. Si prendeva una vacanza: una vacanza da quel conflitto interiore che la corrodeva goccia a goccia e del quale non trovava la via d’uscita.
Arrivando al Vomero, la vista dei tigli le richiamò alla memoria quel loro primo incontro, ormai vecchio di qualche mese. Ne cacciò subito il ricordo con un breve e pungente senso di colpa, e si ripromise di non pensare a Luigi per qualche ora.
Fra gli amici di Fiore, quel giorno, c’era un tal Riccardo, il quale, tra la meravigliata invidia dei presenti, si pavoneggiava al volante di un’auto nuova di zecca, imprestatagli – lui appena maggiorenne – dal padre.
Quel Riccardo, Marta già lo conosceva. Frequentava la III liceo del suo stesso Istituto e più di una volta aveva cercato di attaccar bottone o di invitarla a qualche festicciola pomeridiana. A Marta non piaceva molto. Lo giudicava troppo sicuro di sé, un po’ spaccone, e quel tipo di ragazzi proprio non poteva digerirlo. Ma quel pomeriggio, quando Riccardo, rivolgendosi a lei, le aveva proposto, di fronte a tutti:
– Dài, vieni a fare un giro con me! -, Marta aveva accettato senza pensare, spinta forse dal timore, se avesse rifiutato, di essere giudicata bacchettona da quei ragazzi più grandi di lei.
Fu così che Marta accettò il passaggio e, quando l’auto partì, già s’era pentita, ma si convinse che in fondo non era poi così male stare seduta su quel sedile di pelle che odorava di nuovo, fra quelle cromature e specchietti e morbidezze, ai quali non era avvezza.
Riuscì solo a dire:
– Fammi fare un giro breve, perché devo rientrare a casa presto.
Riccardo annuì e, avendola in quel momento prigioniera, ne approfittò per farle quella proposta che lei, ogni volta che lo incontrava, sentiva incombere tra loro:
– Vuoi diventare la mia ragazza?
Marta scosse violentemente la testa in un no che non lasciava dubbi.
– No, Riccardo, no – disse. – Non voglio diventare la ragazza di nessuno – e quella bugia le bruciò l’anima come mai avrebbe potuto giudicare possibile.
Quando, dieci minuti più tardi, tornarono da dove erano partiti, alcuni amici se n’erano andati e Fiore stava parlando con un ragazzo alto che, visto di spalle, Marta, lì per lì, non riconobbe. Ma mentre scendeva dall’auto, furono gli occhi di Luigi quelli che incontrò, e restò lì, paralizzata, a fissarlo senza una parola.
Fu lui a prendere l’iniziativa, questa volta. Le si avvicinò e, serio, le chiese se le poteva parlare. Marta annuì e lo seguì come un automa.
Scesero lungo il viale per qualche minuto, in un silenzio gonfio di minaccia. Una volta lontani da sguardi indiscreti, Luigi si fermò e la guardò negli occhi. Fu uno sguardo pesante, adulto e doloroso, che Marta non avrebbe mai più potuto dimenticare.
– Ti avevo portato questo – disse lui, estraendo dalla tasca un pacchetto legato con un nastrino bianco. Abbassati gli occhi, Luigi ruppe l’involucro e le porse una piccola scatola blu. Marta la prese automaticamente e, interrogandolo con gli occhi e ricevendone in risposta uno sguardo di assenso, l’ aprì. Due anellini uguali, simili a vere sottili, brillavano su un fondo di velluto blu.
Il cuore di Marta perse un battito. Fissò gli anelli a lungo, incapace di formulare pensiero alcuno, schiacciata da un abissale senso di buia perdita. Quando alzò gli occhi, vide che lui le tendeva la mano in attesa. Lentamente, gli restituì l’astuccio. Luigi annuì in silenzio, la guardò a lungo, poi le girò le spalle e si allontanò senza più voltarsi.
Marta restò lì, a seguirlo con gli occhi, finché non lo perse di vista. E restò lì ancora, non riuscendo, per un lungo momento, a distogliere lo sguardo dall’angolo di strada oltre il quale Luigi era scomparso.
Per tutta la vita, di lui le rimase, in un anfratto del cuore, un piccolo grumo di rimpianto, avvolto nell’onda gentile del profumo dei tigli.