di Gianluca De Rosa
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L’obbligatorietà nell’esercizio dell’azione penale, difesa dalla Costituzione e osteggiata da… quasi tutti gli altri. Una fase delicata nello sviluppo graduale di un processo.
Pensavo che l’esagramma di questo numero (Il progresso graduale), col suo sviluppo così opportuno (Dopo il compimento), non mi lasciasse scampo; mi sentivo in dovere di raccontare come si delinea gradualmente un procedimento penale, dopo il compimento di un crudelissimo delitto. Avevo già riordinato le idee, partendo dall’iscrizione della notizia di reato all’interno del relativo registro – che, con buona pace dell’Ordine dei Giornalisti, non si chiama “degli indagati”, bensì proprio “delle notizie di reato” –, sgattaiolando attraverso le regole investigative, poi lanciandomi sull’“avviso di conclusione delle indagini preliminari” (che, ancora al netto di formulazioni di stampa, non si chiama “avviso di garanzia”), affrontando l’imputazione per arrivare trionfalmente ai tre gradi di giudizio.
Poi ho visto campeggiare sulla mia scrivania i due manuali che per lungo tempo hanno tentato in tutti i modi di insegnarmi il funzionamento del codice di procedura penale. Il primo, quello che ho studiato al mio terzo anno di università, misura la bellezza di quasi novecento pagine. Il secondo, quello che mi insegue a tutt’oggi, le supera con agio. Così mi sono reso conto che non avrebbe avuto alcun senso riassumere in maniera troppo superficiale un’intera disciplina tecnica: i miei (venti)cinque lettori sarebbero scappati senza voltarsi e avrei sforato gli ottomila caratteri concessi. A quel punto mi son fatto persuaso che fosse il caso di prendere solo una piccolissima fetta del discorso – la più gustosa – e di concentrarsi su quella.
Bene, anche in tempi recenti si sente parlare dei Pubblici Ministeri, chiamati anche “Procuratori della Repubblica”: quantomeno si nominano quelli che, a vario titolo, finiscono in televisione o sui giornali, come Di Pietro, Boccassini, Ingroia, Woodcock. Sono (o erano) magistrati, come i giudici: se ne differenziano perché, invece di decidere se condannare, sostengono l’accusa nei processi. Il loro compito a dirla tutta è un po’ più variegato di così: in prima battuta ricevono la notizia del reato, da lì in avanti coordinano le indagini, di cui sono responsabili (magari disponendo intercettazioni, perquisizioni, sopralluoghi, ricognizioni e sentendo testimoni e imputati) e raccolgono tutto il materiale in fascicoli (spesso giganteschi); se poi le cose si dovessero far serie e si decidesse di rinviare a giudizio il malcapitato, durante la celebrazione del processo il P.M. siederà nei banchi opposti rispetto a quelli degli avvocati difensori e, prima che il giudice decida, generalmente chiederà la condanna dell’imputato in quel discorsone che si chiama “requisitoria”, uguale e contraria all’arringa difensiva.
I Pubblici Ministeri sono la benzina dei processi penali: senza di loro, i giudici e gli avvocati penalisti godrebbero di moltissimo tempo libero.
È più che legittimo chiedersi da dove derivi tutto questo zelo accusatorio delle Procure. La risposta è rapidissima: è tutta colpa della Costituzione, che in un suo articolo – di quelli poco chic e poco citati – scrive laconicamente: «Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale», senza aggiungere altro.
Questo obbligo di esercitare l’azione penale non va frainteso: non è (come lo interpretano alcuni) un dovere di accanirsi contro tutti, innocenti compresi, nel tentativo di affollare ancor di più le nostre patrie galere; è invece un vero interesse a che la legge venga rispettata da chiunque calpesti l’italico suolo o galleggi sull’italico mare. Questa regola ha una prima conseguenza diretta e cioè che, quantomeno a parità di condizioni oggettive, non devono esistere processi di serie A e processi di serie B, ma al contrario bisognerà avere cura di punire tutti i comportamenti che lo Stato considera reati.
Da questo punto di partenza discendono anche vari corollari, tutti rivolti a garantire una certa correttezza durante le investigazioni e i gradi di giudizio: tra gli altri, se il P.M. già durante le indagini si accorge che non c’è nulla su cui basare un’accusa, deve chiedere l’archiviazione del caso; se incontra delle prove a discarico che possono “aiutare” la condizione dell’imputato, deve portarle egli stesso davanti al giudice; infine, se durante il processo emerge l’innocenza del malcapitato, deve chiederne l’assoluzione. Insomma, almeno sulla carta gli accusatori sono tenuti ad un certo fair play.
Tornando al tema generale, l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale è una regola e, come tale, se portata alle conseguenze più estreme rischia di stridere.
Talvolta si sente di anziani che rubano delle confezioni di cibo nei supermercati perché non riescono a vivere della loro pensione [1]. Si tratta comunque di furti e bisognerebbe punirli, perché tutto sommato questi arzilli vecchietti avevano delle alternative al reato, tra cui rivolgersi a enti benefici o caritatevoli per ricevere del cibo o farsi prestare del denaro; detto ciò, sfido chiunque a non sentire un senso di profondo disagio nell’immaginare una persona già in difficoltà che, per sopravvivere con decenza, si trovi a subire un processo.
In più, l’obbligatorietà dell’azione penale ha delle conseguenze antieconomiche. Non c’è dubbio che le risorse siano scarse e che non sempre si riesca a fare tutto, ma questa Costituzione, che impone di punire chiunque delinqua, fa in modo che le Forze dell’Ordine, le Procure e i Tribunali siano sommersi da certi tipi di reati (quelli più semplici e comuni, come lo spaccio, i furtarelli o le guide in stato di ebbrezza) e quindi abbiano meno tempo e mezzi inferiori per combattere la criminalità più insidiosa, come quella organizzata o quella che, interessando enti pubblici, sperpera i soldi dei contribuenti. Così, di fronte a migliaia di notizie degne di approfondimento, alla fine lo stesso Pubblico Ministero è costretto a dare la precedenza ad alcune cause rispetto ad altre (l’alternativa sarebbe lo stallo completo), creando diverse “corsie di velocità” all’interno dei processi, e contravvenendo così alle stesse prescrizioni della Costituzione.
Sono tante le voci che si levano per la modifica di questa regola, che a molti pare un dogma inutile, costoso, fuorviante e in alcuni casi addirittura ingiusto. Lo fanno da anni i Radicali [2], ma in tempi più recenti anche gli avvocati [3] e alcuni magistrati [4] hanno aderito alla causa, auspicando che le Procure possano in un futuro gestire il proprio lavoro discrezionalmente, senza essere più soggette all’obbligo di reprimere tutti i reati e anzi, magari riconoscendo in modo esplicito la facoltà di creare classi di crimini di maggiore e minore interesse. Ancora, c’è chi sottolinea che siamo gli unici in Europa ad avere un sistema così impegnativo.
È tutto vero, probabilmente un giorno si avvererà quello che sperano in molti. Così, i procuratori generali potranno decidere con una certa scadenza (annualmente, forse più) quali sono i reati prioritari, magari seguendo logiche strettamente di politica criminale o più probabilmente quelle economiche o pubblicitarie.
Già nell’aprile dell’anno scorso ci si è parecchio discostati dalla disposizione della Costituzione: in quel mese è stato inserito un nuovo articolo del codice penale che permette di non punire i fatti definiti «particolarmente tenui». Con questa novità la Procura può rendersi conto della piccola dimensione del reato che ha di fronte e di conseguenza potrà archiviare il caso, oppure, se il P.M. è un po’ distratto, sarà il giudice a poter assolvere l’imputato per lo stesso motivo.
La cosa interessante è che, tra i vari requisiti per far scattare questo nuovo meccanismo del tutto facoltativo, si richiede l’“accertamento della sussistenza del reato”, cioè la verifica che il fattaccio è successo per davvero (o, se si è ancora in una fase preliminare del procedimento, si richiede che a prima vista il reato sembri esserci), per poi valutare che il fatto sia di poco conto; magari un altro P.M. o un altro giudice non riterrebbero un fatto analogo poi così tenue, con esito opposto per il povero malcapitato e con buona pace dei nostri Padri Costituenti.
Nel solito mare magnum di dubbi, una certezza: mentre l’articolo della Costituzione sull’obbligatorietà dell’azione penale può anche essere messo da parte, ce n’è un altro non prestando attenzione al quale si rischierebbe grosso, e che è meglio lasciare dov’è: è quello che dice «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
Note
[1] Alcuni quotidiani locali riportano notizie di questo tenore: ad esempio l’inserto bolognese di Repubblica oppure un quotidiano di Teramo.
[2] Chi si vuole fare una cultura può andare qui o qui.
[3] Ne scriveva Il Sole 24 Ore.
[4] Ne ha scritto Klaus Davi sull’Huffington Post.