di Amedeo Liberti
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Dall’immagine della clessidra, passando per le sabbie mobili, fino al cinema giapponese del dopoguerra: il simbolo della sabbia racconta lo sforzo di uno sviluppo lento e insicuro come le dune del film La donna di sabbia. Sabbia che però, come l’amore, sa infiltrarsi ovunque.
Un uomo cammina lungo una spiaggia del Giappone. Alte dune lo circondano ma, più che al mare, l’impressione è che si trovi in un deserto. Di quando in quando smuove la sabbia sotto di lui. Stana e raccoglie piccoli coleotteri che mette sotto vetro. Mentre rimira le bestiole catturate, prova invidia per la loro semplice vita, priva delle sovrastrutture a cui gli uomini s’affidano per certificare d’esistere. In effetti l’uomo, entomologo dilettante, è di quel genere di studiosi che ambisce scoperte inedite. Individuare un bacarozzo mai registrato l’aiuterebbe a consegnare ai posteri il suo nome, magari incorniciato in una bella didascalia dell’Enciclopedia. Paradossalmente, però, per il momento il suo nome ci resta sconosciuto e l’unico dato che abbiamo su lui si riduce all’indicazione di un’iniziale: J.
Si sa, però, che dilettarsi nell’entomologia ha come contrappasso il dover macinare chilometri a piedi con la testa china sotto il sole. Stanco, l’uomo s’appisola sulla spiaggia e perde l’ultimo autobus per la città. Per fortuna alcuni abitanti del luogo gli trovano una sistemazione a casa di una donna. Si tratta di poco più che una baracca di legno. L’accesso è difficile, in quanto si trova ai piedi di una specie di calanco di rena circolare. In pratica la casa è in mezzo a un’enorme buca di sabbia dalle pareti impervie, non del tutto dissimile dalla tana dei coleotteri che J. cacciava poc’anzi.
Per raggiungerla è necessaria una scala di corda. Neppure nel Paese del Sol Levante si guarda in bocca a caval donato, pertanto l’uomo scende di buon grado, sicuro di poter far ritorno il dì seguente ai suoi comfort. La scala viene però ritirata e le pareti di sabbia non permettono nessun appiglio per arrampicarsi. L’uomo non uscirà più di lì.
Qualcuno ha detto che i veri nomadi sono quelli che restano anche a discapito di condizioni ambientali proibitive. I nomadi però resistono e non se ne vanno via. Così è per i tuareg del Sahara, per gli inuit al Circolo Polare, per gli zingari sotto i cavalcavia e così è per la gente di quel villaggio giapponese, tradizionalista e affezionata a quei luoghi, anche se questo amore impone alla collettività fatiche di Sisifo. La sabbia in quella landa è un problema grave e la mano incessante del vento la trascina verso il villaggio, che rischia sempre d’esserne inghiottito. Ogni notte (quando l’umidità modifica la consistenza della rena) gli abitanti di alcune case periferiche (noi vedremo solo quella dove stanno J. e la donna) devono spalare via la sabbia che s’accumula al fondo delle buche in cui stanno le loro abitazioni, riversarla in grossi catini poi portati via con un argano dagli altri abitanti. È una vita dura. Troppo per una donna sola che ha appena perso marito e figlio in una valanga di sabbia. Perciò l’uomo è stato rapito. Resterà lì ad aiutarla perché non c’è più nessun altro che possa farlo. Non è il primo e nemmeno l’ultimo a cui è capitato.
L’uomo si ribella. Lega la donna impedendole di scavare la sabbia. I villici non se la prendono, anzi molto generosamente gli fanno pervenire sakè e sigarette. Quel che sembra un gesto ospitale si rivela una nuova trappola. L’acqua è razionata, gli unici che possono farla pervenire sono gli abitanti del villaggio tramite l’argano manuale. Le sigarette e il sakè, invece d’aiutare, non fanno che aumentare l’arsura e velocizzare la capitolazione dell’uomo che, domato anche se non del tutto arreso, inizierà a scavare e a progettare la sua fuga. Sette anni dopo un atto burocratico ne sancirà la scomparsa ufficiale.
Nel film, i dialoghi sono alternati a bellissime e suggestive inquadrature di dune e di sabbia che scivola o che danza nel vento. Più raramente alla sabbia si intervallano inquadrature della collezione di scarabei e insetti dell’entomologo. Tutti contrappunti utili a sottolineare la condizione esistenziale e le riflessioni psicologiche dei protagonisti. Anche se, poiché in un film il ruolo principale lo si può individuare dal numero di primi piani e di dettagli che riguardano un personaggio, si può dire che al centro di questo film ci sia proprio la rena.
Sabbia, sabbia e ancora sabbia, che scivola, che inganna e ingoia quando si fa sabbia mobile (proprio quando lui riesce a fuggire) che penetra nelle fessure e che disegna arabeschi, degni di giardini zen, sui volti e i corpi dei protagonisti. Sabbia ovunque; tanto che, se non fosse per il bianco e nero e per la durata poetica delle inquadrature, si potrebbe benissimo stare dalle parti di Interceptor o di un altro film distopico.
Il punto è che la sabbia ha qui un ruolo simbolico, sottolineato da un sapiente montaggio per attrazioni à la Ėjzenštejn. In effetti l’immagine della rena viene utilizzata nella pellicola come metafora d’uno sviluppo graduale, a indicare il passaggio del tempo, l’ansia crescente nell’animo del protagonista, la mutevolezza delle cose mondane, ma anche l’indifferenza e l’ostilità dell’universo. Questo simbolismo è un ingranaggio indispensabile al funzionamento d’una storia congegnata come un complesso dispositivo che opera su più registri.
Sabbia eri e sabbia tornerai!… Vi è innanzitutto un livello generale d’interpretazione del film, dove la rena è usata come allegoria del destino umano. La vita è come pulviscolo che sfugge alle dita, non la puoi fermare e catturare. In più ogni tentativo di dare un senso all’esistenza (un nome sull’Enciclopedia) si rivela maldestro e fallace come quello di edificare una città nel deserto. La gloria, si potrebbe dire, non è in fondo che polvere di stelle. Inoltre la sabbia è metafora dei rapporti tra individuo e società. Ciascuno di noi è un granello che scivola su un altro granello con la stessa inesorabilità kafkiana d’un processo burocratico. Nessuno può prevedere dove e su cosa si poserà.
Sacchetti di sabbia alla finestra… Un secondo parametro riguarda i mutamenti culturali dell’epoca. Leccate le ferite di guerra, al Giappone d’inizio anni Sessanta non resta che scivolare nello stretto passaggio scavatosi tra la nuova accettazione della cultura (atomica) del “Sol Calante” e la strenua difesa delle tradizioni. La donna e l’uomo ricalcano questa dicotomia. Lui, intellettuale dai modi urbani, si capisce che ha sposato lo stile di vita occidentale. Lei, all’opposto, è pragmatica, incolta e tradizionalista. L’erudizione dell’uomo deve però soccombere alla modesta sapienza della donna che, sebbene non istruita, conosce molto bene la natura che la circonda. È chiaro che si confrontano qui due atteggiamenti (ma anche due classi sociali) d’un Giappone in cui si sta sviluppando gradualmente una nuova forma culturale, come se una Grande Duna prendesse il posto della Grande Onda di Hokusai. Il conflitto risalta in una delle scene più grottesche del film. L’uomo chiede di uscire, anche sotto stretta sorveglianza. Il villaggio glielo concede, ma a patto che lui violenti la donna di fronte a loro. Gli abitanti si presentano allo spettacolo indossando maschere del teatro kabuki; vogliono accertarsi che anche i colti cittadini facciano l’amore come loro.
Ho scritto t’amo sulla sabbia… Un terzo livello d’interpretazione riguarda i rapporti tra i sessi. Rapporti inizialmente ruvidi, violenti e un po’ sadici, come una folata di vento sabbioso sul volto, ma anche caldi e avvolgenti come un bagno di sabbia. Nel film la rena assume una forza estetica pregna di eros. I piccoli cristalli di sabbia brillano sui corpi abbronzati come paillettes e l’inquadratura dei tatami, alla Ozu, assume aspetti conturbanti. Ma in fondo la sabbia è anche metafora dell’amore che si insinua ovunque. Perché lentamente, con la stessa progressività con cui cresce e si ammucchia sulle dune, si sviluppano nell’uomo prima la pietas e poi una nuova consapevolezza: è amore quello che inizia a nutrire per lei e per l’esistenza che conducono insieme.
La donna di sabbia (1964) è tratto dal romanzo omonimo di Kobo Abe. La regia è di Hiroshi Teshigahara. Gli interpreti principali sono Eiji Okada (Hiroshima mon amour) e Kyoko Kishida.