di Federica Griziotti
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Un artista dopo un grande successo oppure dopo una battuta d’arresto deve riprendere il suo percorso creativo, magari sperimentando leggermente oppure sviluppando nuove forme espressive, nuove tematiche o nuove collaborazioni.
La sperimentazione è forse il frutto di un cambio di rotta, una volta raggiunto un obiettivo: è uno sviluppo che giunge dopo un compimento, che può essere positivo oppure negativo, può derivare da un successo, così come da un calo di produttività o – per essere meno industrialisti – di creatività.
Il rapporto di un artista con la propria creatività è molto sofferto, ed è causa di infinita insoddisfazione e sofferenza: tutti noi immaginiamo questi artisti “ottocenteschi&co” come degli imperturbabili svogliati, stravaccati su divani di velluto anche d’estate, intenti a guardare i passanti fuori dalla finestra per capire quale sia l’ora del giorno con la miglior luce; oppure gozzoviglianti ubriachi nei caffè, colmi di liquori e attorniati da soggetti discutibili. Certo, ma questa è solo una piccola percentuale della pesante vocazione artistica; non tutti gli artisti sono dei Toulouse-Lautrec in erba…! L’altra faccia della medaglia della vita d’artista è ben più sfidante: riuscire a incanalare l’ineffabile e fare ordine nel groviglio dell’esistenza. E a quanto sembra di capire – leggendo i numerosi diari d’artista, le lettere più accorate tra amici e colleghi, o guardando i film che ci raccontano le loro vicende biografiche – le gioie sono piuttosto rare, ma forse anziché di gioie è più corretto parlare di soddisfazioni. Mi piace fare l’esempio di Monet che, rinchiuso nel suo giardino di ninfee a Giverny, per gli ultimi vent’anni della sua vita quasi secolare, temeva di morire prima di essere riuscito a esprimere ciò che avrebbe voluto dire con quelle tele sconfinate. La svolta monotematica delle ninfee si è verificata alla fine della sua vita, dopo una carriera che lo ha portato a essere uno degli artisti più conosciuti della storia dell’arte. Ma in questo nuovo e ultimo progetto ha trovato la sfida espressiva più usurante e probabilmente più emozionante, eppure si sentiva ancora insoddisfatto.
Un artista contemporaneo, invece, che rapporto ha con la propria creatività?
Mi chiedo dove risieda la soddisfazione di un artista oggi, dove tutto è inevitabilmente mediato e diventa subito immagine pubblica. Non è necessario dire che ciò sia un male per l’arte, tutt’altro, però oggi i passaggi dalla creazione alla ricezione di un’opera sono tanti e diversi, a partire dai mezzi per creare fino ad arrivare ai mezzi per comunicare. In quale di questi passaggi va rintracciata la soddisfazione della creatività? È un artista all’antica quello che si accontenta della soddisfazione creatrice? E uno che invece si adopera nel lavoro di comunicazione, viene visto come un prodotto da mercato?
Una cosa che infastidisce i cuori romantici e gli idealisti inossidabili è il fatto che oggi inevitabilmente ogni artista deve essere un po’ social, un po’ smart, un po’ imprenditore di sé stesso. Eh sì, brividi.
Però esorto me stessa in primis e tutti i miei più-o-meno-coetanei a non fare i barbuti accademici custodi della Verità, e a non comportarci come se fossimo gli ultimi baluardi della Scuola di Atene. Per un artista contemporaneo lo sposalizio con la propria arte è sacro oggi come lo era per il Perugino (che dipinse Lo Sposalizio della Vergine tra il 1501 e il 1504).
Probabilmente oggi il processo di sviluppo professionale di un artista incontra più e più velocemente degli snodi, che siano battute d’arresto dopo un insuccesso o che siano necessità di trovare un percorso creativo valido dopo aver raggiunto un apice creativo, o nei casi migliori un grande successo.
Ma se questo ci risulta chiaro e quotidianamente approvato, perché siamo così pronti a giudicare un artista che, per le più varie ragioni, fa un salto al di fuori del suo territorio e lo tacciamo all’istante di essere scaduto, volgare, alla ricerca di visibilità a tutti i costi? O almeno, voi lo fate?
Ovviamente nessuno sta pensando alla prima casistica, ovvero: criticare chi imbocca una nuova strada, dopo una battuta d’arresto. Cioè nessuno si sognerebbe di criticare Ai Wei Wei e la sua impetuosa svolta performativa a favore dei diritti umani dopo i mesi di reclusione imposti dal regime cinese… o forse sì? Be’, gli sperimentatori scoprono più apertamente il fianco ai critici.
È più facile pensare alle potenziali e reali critiche che il pubblico muove a un artista che si dedica a progetti sperimentali, non pienamente allineati in maniera ortodossa con il proprio percorso. Ma ancora: chi siamo noi fruitori, pubblico, o a volte persino critici, per decidere di giudicare ciò che è allineato con gusto e ciò che invece non lo è? Stiamo ragionando con dogmi rigidi e regole oppure con un flusso che è difficile incanalare? La sperimentazione spesso ha regalato frutti di raro valore, ma è facile che mandi in confusione il fruitore.
Come sempre si dice: dal caos nascono poi le stelle; e penso alle varie collaborazioni di artisti contemporanei nel mondo della moda: una realtà che ha molto a che fare con la produzione, la visibilità; un mondo che predilige il fulmineo susseguirsi di temi, eppure che vive e si alimenta profondamente del millenario patrimonio storico-artistico e della sua iconografia. Può sembrare un connubio controverso ai più conservatori, ma in realtà è raro trovare una tale spontaneità e coerenza tra discipline differenti. Non sono affatto pochi né isolati i casi di grandi maison che ricorrono alla visione di altrettanto grandi artisti: possiamo citare la collaborazione, nel 2012, tra Yayoi Kusama – artista sospesa tra tematiche optical e il surreale – con Marc Jacobs, allora direttore artistico per Louis Vuitton: insieme crearono una linea, senz’altro eccentrica e sui generis, che prevedeva una texture dai pois giganti per i più disparati prodotti, dagli accessori agli abiti – celebre è una foto di George Clooney elegantissimo e immerso in un mare di surreali bolle black and white, frutto del visionario ambiente creato da Kusama. La collaborazione con Kusama ha rappresentato un enorme progetto che ha coinvolto 460 punti vendita Louis Vuitton in 64 paesi, e ha promosso la creazione di sette speciali concept-store, in città come Parigi, Londra e Tokyo, allestiti dall’artista, dove dominavano giganti installazioni eccentriche, ambienti dai forti colori primari sovrapposti, ed esposte ai muri si potevano leggere le sue creazioni in versi. Il connubio arte-moda per la maison era nato già nel 2003 con la collaborazione di Takashi Murakami – scultore e pittore – che ai tempi aveva fatto impazzire le folle con una rivisitazione in stile manga del noto logo dell’azienda.
Altra collaborazione è stata quella del settembre 2015 dove l’allestimento della sfilata di Givenchy a New York –in data 11 settembre – è stata affidata a Marina Abramovic da Riccardo Tisci, direttore creativo della maison. Tra architetture effimere in legno riciclato e alluminio si muovono uomini e donne come fossero fantasmi, mentre sopra piattaforme elevate alcuni performer impersonano dei riti simbolici: un abbraccio, un battesimo sotto un getto d’acqua. Tutto scandito da melodie austere e canti lirici, legati alle tradizioni di diverse religioni, che conferiscono alla sfilata un look di intensa e potente spiritualità. Un allestimento rigoroso e romantico, dominato da innesti di teatralità e onirismo. In chiusura le note soavi dell’Ave Maria di Schubert. Un inno al sentimento del sacro, al dialogo, all’amore per la cultura, che in pieno “stile Abramovic” fa concentrare il fruitore su un tempo meditativo, dilatato, generalmente molto distante dalla realtà della fashion week, mondo dove regna per antonomasia la frenesia.
Infine, la freschissima collaborazione fra Alexander McQueen – autore della collezione prêt-à-porter Primavera/Estate 2016 di McQ – e Nan Goldin, la fotografa che tutti (hipster e non) possono solo amare. La sua spontanea e dolorosa profondità potrebbe sembrare impensabile applicata a questa veste; invece quando un artista tocca una materia la trasforma, da sempre. Sei anni dopo la sua prima sperimentazione nel campo della moda (nel 2010 aveva scattato per Bottega Veneta) Nan Goldin ha scelto tonalità sature e i toni mossi delle scene underground per mediare tra la sua cifra stilistica personalissima, che le ha garantito l’affetto universale del pubblico, e il mondo del clic et nunc della pubblicità.