L’umano teatrino della debolezza

di Giulio Bellotto

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L’uomo è una creatura fragile, paurosa, il più delle volte misera e spesso debole o impotente. Il teatro mette in scena l’uomo. Thomas Bernhard rappresenta questo aspetto sia nel teatro che nella vita privata.

L’attore e regista Leo de Berardinis, uno dei più importanti esponenti del teatro di ricerca italiano dagli anni Settanta a oggi, una volta affermò che «[il teatro] è una grande forza civile; toglie la vigliaccheria del vivere, la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita e della morte».

Il significato profondo sotteso a questa frase, e con esso anche la sua importanza per la società contemporanea, si trova racchiuso tutto in un’etimologia: teatro civile.

Il teatro appartiene alla civis, ovvero propugna i valori fondamentali della collettività, e il suo compiersi segue necessariamente un impulso che è anche civilizzatore, teso al miglioramento. Non è sbagliato affermare che il teatro rappresenti una forza in grado di “domare” l’uomo alla civiltà; che addirittura lo educhi al vivere sociale, essendo diventato attraverso le epoche il viatico del lungo cammino umano.

Molti hanno paragonato l’arte e la sua ispirazione a un compito lieve ma obbligato, una leva che arruola intelletti e, nel caso del teatro, corpi. L’espressività delle arti sceniche risiede infatti nella disposizione artistica dei suoi interpreti, nel movimento che essi compiono e infine nello sguardo del pubblico; solo così un piccolo gesto o un debole sospiro può diventare un paradigma di universale umanità come quelli racchiusi in molte drammaturgie, regie e interpretazioni che hanno coinvolto ed emozionato gli uomini, a cominciare dai riti primitivi da cui si sono evolute le prime forme di teatro.

L’I Ching ricorre spesso a immagini naturali e per esemplificare l’esagramma n. 9, tema di questo numero della Tigre incentrato sulle vittorie ottenute dai deboli, parla di come il vento nel cielo sposti le nubi pur essendo solo aria senza un corpo solido. Il teatrante, mantenendo questa dolcezza, fa invece l’esatto contrario: pur essendo una singola persona e avendo un solo corpo, quando è in scena diventa capace di interpretare molti ruoli e di commuovere un vasto pubblico. Nelle Scritture, un simile esempio di inaspettata forza è simboleggiato da Davide che abbatte Golia; l’esempio è calzante giacché in fin dei conti il meccanismo teatrale è fragile e incerto come un lancio di fionda.

Entrambe le azioni sono infatti basate su un equilibrio che ne è presupposto e motore. Quanto sia precario e mutevole l’equilibrio delle forze che regolano il teatro – e con esso anche i suoi riflessi di vita reale, prima fra tutti la vita stessa – lo può testimoniare molto efficacemente un aneddoto riportato da Thomas Bernhard, grande scrittore e drammaturgo austriaco del secolo scorso, che in gioventù si trovò alle soglie della morte. Il libro di memorie Die Kälte. Eine Isolation[1] ripercorre infatti le sue esperienze biografiche durante il periodo passato nel sanatorio di Grafenhof dove l’autore appena diciottenne era ricoverato per una malattia respiratoria, la sarcoidosi, all’epoca piuttosto difficile da curare; è molto ironico il modo con cui viene da lui rievocata la corsia dell’ospedale come se si trattasse di un teatro improvvisato e inconsapevole, nel quale il gioco di sguardi tra pazienti e dottori ricrea le dinamiche che s’instaurano tra un attore e il suo pubblico. Ecco che così Thomas, pur convalescente, doma i pregiudizi medici dei dottori un tempo amichevoli e rassicuranti ma che lo avevano ormai dato per spacciato e gli rivolgevano occhiate perplesse a ogni giro di visite, quasi come se si augurassero un suo peggioramento per preservare inalterata la validità delle teorie scientifiche, poste da sempre a salvaguardia della loro professione. Dopo essere sopravvissuto alla propria malattia, al cinismo di questa ribalta ospedaliera, e aver sviluppato un occhio inesorabilmente critico verso le scienze e i suoi adepti, dimesso, Bernhard si indirizzò a studi teatrali frequentando il Mozarteum, un’istituzione salisburghese votata innanzitutto alla musica.

A noi, osservatori posteri, nessun’altra scelta risulterebbe altrettanto coerente da parte di un convalescente dall’animo creativo: se da un lato anche la musica (come la salute, la fionda e il teatro) è un delicato equilibrio di forze, dall’altro la capacità di essere “debole” è una qualità assolutamente necessaria a un attore. Infatti la debolezza, intesa come malleabilità del corpo, permette di adattare il tono muscolare alla recitazione nonché di avere la prontezza per reagire in modo tempestivo e adeguato a ciò che succede sulla scena, in platea, e all’imprevisto che è proprio di ogni spettacolo dal vivo. Paradossalmente la mancanza di forza permette all’azione di non raggiungere solo un destinatario d’occasione (il personaggio) ma di arrivare al suo destinatario reale (lo spettatore) con maggiore incisività ed energia, passando attraverso il teatro – un sistema composto da attori e pubblico – come attraverso un tubo catodico che ne renda visibili gli impulsi. La preparazione fisica di un danzatore, di un cantante o di un musicista rispetta gli stessi principi: la tensione muscolare va sempre a discapito della tensione scenica.

Ma tutto ciò riguarda il lato tecnico e, anche se permette di ottenere vittorie e gran successo di pubblico tramite l’impiego di una «forza domatrice piccola», non esaurisce la questione. Vi è infatti una componente molto importante che abbiamo già citato senza trattarla però approfonditamente, anch’essa molto adatta al tema della fragilità e del piccolo: il personaggio. Egli è sempre in bilico, innanzitutto perché per definizione è costantemente sospeso tra la vita e la morte; esiste giusto il tempo di una rappresentazione, è temporaneo e fuggevole, resiste tutt’al più nella memoria dello spettatore. Quando questo avviene, ha la sua realizzazione più alta – e fortunatamente sono molti i personaggi teatrali che ne hanno goduto appieno, che da inconsistenti pezzetti d’immaginazione drammatica hanno subito un processo teatrale che li ha trasformati in vittoriose sculture dell’ingegno umano. Sono tali, ad esempio, molti dei caratteri tratteggiati dalla penna di Shakespeare: Riccardo III, Shylock, Antonio, Porzia, Lady Macbeth.

Non sono casuali questi esempi, infatti si tratta di personaggi che risultano deboli anche all’interno del testo, a confronto cioè con gli altri personaggi del medesimo universo teatrale. Tutti loro però riescono a ottenere una vittoria, talvolta solo parziale e momentanea, e ad avere comunque soddisfazione della loro condizione. Riccardo è re ma è storpio; nonostante ciò riesce a portare avanti i suoi piani malvagi fino alla morte, che non ne intacca l’aura di cattiveria neppure con un fuggevole rimorso, in pieno stile villain (in narrativa è la figura del personaggio malvagio).  Nel Mercante di Venezia vi sono tre personaggi miseri per diverse ragioni: Shylock risente dello stigma di essere ebreo, inoltre è infelice perché vedovo e abbandonato dalla figlia e per questo motivo si accanisce contro Antonio, benvoluto ma in rovina economica; Porzia, infine, è una donna e per mettere a frutto la sua intelligenza e salvare l’amico dovrà travestirsi da avvocato. Della stessa debolezza di genere è affetta anche la terribile lady della commedia scozzese, perfetta incarnazione tragica dell’ultima linea dell’esagramma n. 9: «La luna è quasi piena. Se il nobile persiste viene sciagura».

Ma non sempre le modificazioni del personaggio teatrale sono grandi ribaltamenti di situazione, momenti che fanno la Storia e cambiano il destino di intere corti e nazioni. Talvolta la pièce si consuma in una cucina familiare: qui Laura ottiene la sua vittoria e si chiude nell’agognato silenzio finalmente libera da ogni obbligo sociale, di società e socializzazione nella conclusione di un bellissimo e claustrofobico dramma di Tennessee Williams, Glass Managerie, scritto nel 1944 a partire da un racconto di dieci anni prima.

Tuttavia a teatro capita spesso che realtà e finzione si incontrino nel foyer. Una di loro recita la parte di Davide, l’altra quella di Golia. Così è accaduto che l’alcolizzato Williams abbia vinto e domato il suo passato mettendo in scena nel personaggio di Laura i tormenti dell’amata sorella Rose, affetta da disturbi psichiatrici e in seguito lobotomizzata con grande dolore dell’autore; qualche anno dopo, a Grafenhof, Thomas Bernhard incontrava Edwige Stavianicek, da lui stesso definita «la persona della mia vita!». Fu forse lei la Beatrice che gli permise di uscire da quel teatro degli orrori che era il sanatorio? In questo caso, andrebbe detto che la sua eponima fu una ragazza fiorentina morta giovanissima che però riuscì a intercedere con grazia per quel gran peccatore di Dante persino presso Dio.

Note

[1] T. Bernhard, Il freddo. Una segregazione, tr. it. Anna Ruchat, Milano, Adelphi 1991.

Autore

  • Rappresenta l'anello di congiunzione tra l'attore e il critico teatrale, panni che indossa uno sopra l'altro come maglioni in un giorno uggioso. Si sta formando alla Scuola di Teatro dell'Arsenale e nel tempo libero studia Lettere Moderne in Statale.

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