di Federico Filippo Fagotto
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Un piccolo stand e un piccolo megafono, che funziona così così. Con questo, abbiamo cercato di spiegare al pubblico cosa motiva il nostro entusiasmo e come prende la forma di una rivista. Ci troviamo a Macao, durante l’ultima edizione di Liberlibri, piccola iniziativa dell’altrettanto piccolo (ma tenace) panorama dell’editoria indipendente e autoprodotta. Tutto è pronto, insomma: sei piccoli lanci, qualche linea d’inchiostro su un foglio e… voilà: La forza domatrice piccola, l’esagramma numero 9 dell’I Ching.
Che significa?… be’, quando un piccoletto, debole e smunto, le suona di santa ragione a uno bello grosso e tronfio. Avete presente la storia di Davide e Go… ops!, avevo promesso di non fare più questo esempio. Comunque avete capito. È meglio per noi rimanere allora sul solco dell’editoria indipendente e della sua forza piccina e agguerrita. Le iniziative cui stiamo partecipando, da Liber a Typ-type, insieme alla rubrica dedicata ai libri, che incoraggia l’autoproduzione, e infine allo sfondo editoriale che dipende ancora dalla consegna autonoma del cartaceo e dall’autosufficienza di risorse e di “capitale umano”, ci dicono, in poche parole: piccoli, certo, ma l’importante è che ci sia la “forza domatrice”, appunto. Per conquistarla, occorre trovare sempre la propria dimensione. Rincuoriamoci con l’I Ching, il quale ci dice che persino il re Uenn dové sottostare per un periodo al tiranno Ciou Sinn, cosa di cui il senso di questo esagramma risente.
Nella forma del simbolo infatti, tutte le linee forti sono tenute a bada dall’unica debole e spezzata, che si trova al quarto posto a partire dal basso, nella posizione che di solito è del primo ministro. Per trovare la propria dimensione, allora, è necessario dosare due sostanze, da bravi alchimisti – o meglio, per restare in tema, da bravi “piccoli chimici” – cioè, come scrive il testo cinese: «Ferma decisione interiore e mite adattamento esteriore». Winckelmann avrebbe meglio detto: «Nobile semplicità e quieta grandezza», e forse proprio l’arte e il bello, di cui il tedesco è stato uno dei primi speculatori in senso moderno, ci hanno dato un aiutino a inquadrare il tema.
Spostiamoci infatti in via Palestro, al Museo di Storia Naturale, perché in questo periodo c’è una bella mostra sugli scatti famosi del National Geographic. Andiamo senza indugio alla seconda sala, voltiamo lo sguardo a sinistra e zack!… Vediamo una foto di Gilbert M. Grosvenor che, negli anni Sessanta a Ceylon, coglie un mahout (un addestratore di elefanti) che lava le zanne al suo pupillo, pieno della stessa cura con cui io domenica scorsa ho lucidato la mia Lamborghini (erano le due di notte, ero in pigiama e, ovviamente, dormivo!).
Comunque, lo strenuo impegno e la dedizione di alcuni paesi molto piccoli del sud-est asiatico che, oltre a Ceylon, contano Singapore o la Malesia, sembrano molto utili all’argomento. Non sono, forse, le cosiddette «piccole tigri», in fondo? Pensiamo che Singapore è il quarto centro finanziario del mondo, il secondo paese più popolato e quello con più alta media di ricchezza pro-capite… mica male! Già prima del boom, ci si era accorti che il nanetto non scherzava, tanto da far dire a un certo Winston Churchill, sconfitto nella Battaglia di Singapore, che quello era il peggior disastro della storia inglese. Ma gli inglesi, si vede, per essere anche loro dei piccoli isolani capaci di dominare il mondo, avevano la capa tosta, per non avere ancora capito che da quelle parti le piccole tigri sono coriacee. Le Tigri di Mompracem, su tutte, non gliela mandavano certo a dire. Il prof. Guido Corradi ha per l’appunto tenuto una conferenza in cui ha messo in risalto le origini storiche delle fantasie di Salgari.
A proposito!… La Tigre di Carta offre un posto in redazione a chiunque vinca il concorso dal titolo: “Pronuncia il nome del padre di Sandokan”. Per la cronaca è Maringganlapasentdhan. Significa: «Tigre dei Cieli», e sembra proprio un destino, dato che uno dei due segni naturali del nostro esagramma è proprio Kkienn = “Il cielo”. Per rendere ragione del secondo dei due segni naturali, invece, occorre tornare all’arte.
Ciò che è minuto, infatti, ha sempre suscitato grande fascino in Estremo Oriente. «In verità, tutte le cose piccole sono graziose», ammetteva Sei Shōnagon, antica dama di corte giapponese, nelle note Note sul guanciale[1] (scusate il bisticcio). E proprio in Giappone, infatti, nasce una cifra estetica che il filosofo Kuki Shūzō (amichetto di Heidegger) definisce hosoi o hosomi, alla lettera “sottile”, “magro”, “fino” e che nell’ideogramma accosta il campo di riso (田) con un filo (糸), forse a dire che anche un singolo filo d’erba nel campo possiede pur sempre grande valore, motivo per cui così tante forme d’arte, da quelle parti, si racchiudono in espressioni di piccole dimensioni, dai netsuke – i bottoni decorati e scolpiti con cui appendere le suppellettili al kimono, di cui la nostra rivista ha già avuto modo di parlare, grazie alla galleria d’arte orientale La Galliavola – agli haiku, la forma poetica molto breve e allusiva, fino ad arrivare anche ai metodi di esecuzione pittorica. Attraverso il porto di Nagasaki, ad esempio, aveva fatto scuola il trattato di pittura cinese dal titolo Manuale del giardino grande come un granello di senape. Shūzō include quest’arte nella sensibilità estetica che cade sotto il termine fūryū, tradotto come “raffinatezza” o “buon gusto”, e composto di due simpatici ideogrammi. Uno significa “scorrere” (流). Ricordiamo, al volo, che in una delle principali correnti del buddhismo, ci sono quattro stadi di liberazione di cui il primo è detto: «Entrare nella corrente», e non è un caso se stiamo parlando proprio del buddhismo Hīnayāna, cioè il «Piccolo Veicolo». Certo, in questo caso si tratta di un soprannome spregiativo coniato da scuole avversarie per declassare l’approccio spirituale di coloro che perseguono l’ideale dell’illuminazione per il singolo essere umano, senza votarsi a un sentimento di altruistica compassione. Ma d’altronde, contro le dispute verbali, già l’I Ching sottolinea che, fra le piccole cose con cui si può agire, bisogna servirsi anche di «blandizie e buone parole». Se la calunnia è un venticello, quindi, di certo il secondo elemento naturale dell’esagramma, Sunn = “Il vento”, cade proprio a fagiuolo. E non è finita qui! Quale sarà mai il secondo ideogramma con cui si costruisce il concetto estetico di fūryū?… Indovinato! È proprio il “vento” (風).
Morale della fiaba? Non stupisce più la scoperta che l’esagramma di sviluppo, così come è venuto fuori nel corso dell’estrazione avvenuta a Macao, si tratti dell’esagramma 57, Il vento!… le coincidenze diventano quasi stucchevoli.
Concludiamo quindi con qualche bel dettaglio, in omaggio alla cura dei particolari. Shūzō, ad esempio, ravvisava l’apice dell’hosoi, l’arte di ciò che è minimo, proprio nel grande e venerabile Matsuo Bashō, ossia il Dante dell’haiku, il quale poetò anche così:
Nella stalla / ronza appena una zanzara / vento d’autunno!
A proposito di vento, quindi, pensiamo al vento di autunno che cede ormai il passo al gelo invernale, e ricordiamoci che non tutto il male viene per… avete capito. Le zanzare ad esempio, o meglio: le piiicole zanzare (tanto per calcare l’analogia), in inverno non ci sono, tiè! Certo, poi ci sono alcune zanzare particolarmente toste e rompiscatole… le zanzare tigre, guarda caso. È un animale che porta bene, si vede. Qualche malfidato dice che basti un po’ di vento per infastidirle al punto da scacciarle. Be’, per scacciare La Tigre di Carta ci vorrà ben altro!
E se udiremo gridare: «Capitàno arrivano i Monsoni!», dal nostro lato si risponderà: «E noi li combatteremo», e se poi, scuotendo la testa, ci faranno notare: «Ma, Capitàno… guardi che sono vènti», allora noi, armati della nostra profonda cultura, ribatteremo a colpo sicuro: «Fossero anche cento!»…
Note:
[1] Non è un manuale sull’Amatriciana.
Per le calligrafie dei due esagrammi ringraziamo il maestro Bruno Riva e il sostegno dell’associazione shodo.it