di Ilaria Iannuzzi
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Le minuzie hanno il potere di domare l’ordine complessivo di un’opera, assoggettandone sotto il loro segno il senso e il valore. Per questo lo studio dei dettagli ci apre la possibilità di afferrare l’unicità delle creazioni artistiche.
Ce lo hanno insegnato bene gli impressionisti: spesso, quando si guarda un quadro, è necessario fare un passo indietro per vederlo. Ponendosi alla giusta distanza, un inesplicabile groviglio di macchie si ricompone nella vivace folla di un caffè parigino o nel placido stagno in cui si riflettono delle ninfee.
Altre volte, invece, l’arte costringe al movimento opposto. Lo sanno bene gli esperti d’arte, a cui tocca l’onore e l’onere di piantarsi col naso a pochi centimetri dalla tela e ispezionarne il livello microscopico. Soltanto da qui è possibile cogliere appieno il segno di una pennellata, individuarvi la mano sicura del suo autore, stabilirne l’autenticità. E vale anche l’opposto: a questa distanza così intima tutti i segreti di un’opera si disvelano all’occhio attento e il falso viene smascherato.
Solo in tempi piuttosto recenti il critico ha cominciato ad assumere metodologicamente questa distanza – o per meglio dire questa vicinanza – adatta a sviscerare i minimi elementi che contraddistinguono un’opera. Sin dal Rinascimento fino a quasi la fine del XIX secolo si credeva infatti che il miglior modo per valutare un quadro fosse di considerarlo nel suo complesso. Un atteggiamento più estetico che tecnico, insomma, che come risultato aveva prodotto un’imbarazzante serie di attribuzioni inesatte nei musei. La proposta per un nuovo metodo interpretativo delle immagini pittoriche viene, tra il 1874 e il 1876, dallo studioso italiano Giovanni Morelli. Questi propone di non focalizzarsi sui caratteri più appariscenti, e perciò più facilmente imitabili, dei quadri, ma di esaminare in modo analitico i particolari più trascurabili e quindi meno influenzati dalle caratteristiche della scuola a cui il pittore apparteneva. Stiamo parlando di lobi delle orecchie, unghie, forme irripetibili delle dita delle mani e dei piedi, minuzie tanto infime che sfuggono dal sistema di segni codificato da una certa corrente e rivelano l’individualità dell’artista. Ispezionando queste minuzie, Morelli indossava i panni del detective e andava a caccia di indizi che tradissero la presenza di un dato artista, esattamente come le impronte digitali che tradiscono un criminale.
Proviamo a seguire l’insegnamento di Morelli facendo una visita virtuale alla Galleria degli Uffizi di Firenze. Nella Sala del Botticelli troveremo la migliore collezione al mondo di opere del grande maestro fiorentino: un sacco di materiale per la nostra indagine. Forse suonerà un po’ presuntuosa la nostra pretesa, ma vogliamo stanare il tratto distintivo, unico e inimitabile, che rende Botticelli davvero Botticelli. Non ci concentreremo allora sulla celeberrima linea sottile, precisa e sinuosa che contorna le sue figure, né sulle forme leggere come ritagli di carta; presteremo attenzione, invece, alle mani dalle dita affusolate e nodose, quasi ossute, con le unghie quadrate e contornate di nero[1].
Non le confonderemmo mai con quelle del suo maestro Filippo Lippi, altrimenti così somigliante nello stile (torniamo indietro di poche sale, in quella dedicata a Lippi, per avere una conferma: la Madonna col Bambino e angeli, per esempio, parrebbe così botticelliana, se non fosse per quelle dita più morbide ed eleganti!).
Procedendo più o meno così, Morelli propose diverse nuove attribuzioni in alcuni dei principali musei d’Europa. Il caso più sensazionale è probabilmente quello della Venere dormiente conservata nella Pinacoteca di Dresda, che all’epoca passava per una copia del pittore barocco Sassoferrato di un dipinto perduto di Tiziano, e in cui Morelli identificò invece una delle pochissime opere certe di Giorgione[2]. Se da un lato il suo lavoro si può paragonare a quello di uno Sherlock Holmes, dall’altro è simile a quello di uno psicanalista (Morelli, Doyle e Freud, d’altra parte, condividono la formazione medica, che li ha addestrati all’esercizio della semeiotica, lo studio dei sintomi clinici preliminare alla diagnosi). Così come la psicanalisi indaga i lapsus, le associazioni mentali, i tic involontari, per scoprire la personalità di un uomo in modo molto più profondo di quanto non rivelino le sue parole e i suoi gesti controllati, allo stesso modo la critica d’arte deve soffermarsi sui piccoli manierismi peculiari che l’artista introduce inconsapevolmente, spie della sua individualità molto più chiare degli elementi generali, condizionati formalmente dai codici propri delle varie tradizioni pittoriche. Nel Mosè di Michelangelo Freud stesso nota che il metodo di Morelli appare «strettamente apparentato con la tecnica della psicoanalisi medica. Anche questa è avvezza a penetrare cose segrete e nascoste in base a elementi poco apprezzati o inavvertiti, ai detriti o “rifiuti” della nostra osservazione»[3]. Freud aveva conosciuto l’illuminante opera di Morelli nella sua fase preanalitica ed è molto probabile che ne sia stato influenzato nell’elaborazione della sua teoria.
Più spesso il metodo di Morelli è stato guardato dai suoi contemporanei con riserbo o addirittura con ostilità. In fondo, suggeriva che per essere un esperto d’arte non servisse una particolare sensibilità estetica, ma bastava una meccanica abilità classificatoria. Fu nei primi anni del Novecento che con lo storico dell’arte tedesco Aby Warburg, fondatore della moderna iconologia, impose l’analisi del particolare come paradigma dello studio dell’arte. «Il buon Dio si annida nel dettaglio» era uno dei motti preferiti di Warburg, che rammenta quanto l’approfondimento filologico anche degli elementi a prima vista più insignificanti possa svelare il significato simbolico ultimo di una rappresentazione. La sua vocazione micrologica si potrebbe definire monadologica: il piano macroscopico e quello microscopico si co-implicano e riflettono l’uno nell’altro; e così lo sguardo gettato sul particolare fa luce sul tessuto sociale che lo ha prodotto, con la sua fede, i suoi pregiudizi, le sue regole del vivere civile, i suoi conflitti politici. A differenza di Morelli, che indagava il dettaglio inappariscente per trarne conclusioni sul singolo individuo che lo aveva prodotto, Warburg esplora il dettaglio, dunque, per trarne conclusioni sul terreno anonimo che quell’individuo condivideva con la cultura collettiva della sua epoca e che rendeva possibile quello stesso particolare[4].
Uno dei più recenti eredi di questo culto del dettaglio rivelatore è stato lo storico dell’arte francese Daniel Arasse. Questi ha mostrato come attraverso il dettaglio il pittore ci “parli” sempre di qualcosa, talvolta inconsapevolmente, tal’altra consciamente. Al dettaglio può affidare un messaggio nascosto diverso o addirittura in attrito con quello globale, ed ecco che – guardando bene – improvvisamente vediamo spuntare una nota ironica in un quadro d’impegno sociale, un’allusione erotica in un dipinto di argomento sacro, il segno di una critica politica in un’opera di destinazione “ufficiale”, la testimonianza di un dramma umano ed esistenziale in un soggetto apparentemente convenzionale. Prendiamo per esempio la Donna con pappagallo di Gustave Courbet: a prima vista sembra un’immagine tradizionale, forse anche troppo per un provocatore come Courbet. Ma se aguzziamo lo sguardo notiamo relegata in un angolino una sottoveste: ecco l’elemento sovversivo, che sbeffeggia il buon gusto accademico facendoci intendere che quella non è una semplice donna nuda, è una donna spogliata.
Ci si può chiedere se il ruolo privilegiato del particolare come dispositivo significante non sia terminato insieme all’arte figurativa. Abbiamo visto come, a partire dall’impressionismo, l’arte contemporanea ci chieda di fare un passo indietro e di cercare il suo significato nell’aspetto complessivo. Allontanandosi sempre più dalla resa mimetica della realtà, l’intero si carica dell’enigmaticità e del simbolismo che erano propri del dettaglio. Ma se è verso l’intero che dobbiamo orientare il nostro sguardo indagatore e il nostro sforzo interpretativo, c’è ancora posto nell’arte per il particolare? Temo che questo quesito, almeno per adesso, rimanga insoluto.
Note
[1] Giovanni Morelli, Della pittura italiana; Studii storico-critici, Fratelli Treves, Milano 1897, p. 77.
[2] Carlo Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Aldo Gargani (a cura di), Crisi della ragione, Einaudi, Torino 1979, p. 3.
[3] Sigmund Freud, Il Mosè di Michelangelo, Bollati Boringhieri, Torino 1976, pp. 36-37.
[4] Andrea Pinotti, «Minima maxima sunt». Micrologia e monadologia, in Giovanni Ferrario, Passeggiata minima. Estetica del microscopico, UTET, Torino 2007, p. 29.