L’ascesa del male in Camus

di Victor Attilio Campagna

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Dopo essersi uniti in uno stile poetico, il simbolo dell’ascensione e la caduta nell’infimo diventano tutt’uno in alcuni esempi letterari. La peste di Camus racconta l’ascesa negativa di un paese che, intriso di moralità religiosa, vive l’esperienza del male sotto forma di epidemia allegorica.

Per rispondere alla volontà dell’I Ching volevo trattare di un’Ascesa negativa e ho ritrovato ne La peste di Camus una declinazione particolare: il male è una malattia entrata negli annali tra le più devastanti della storia, la peste bubbonica.

Nel romanzo, Camus¹ ha definito il male come una condizione che prescinde dall’uomo, in quanto agente esterno: non è la solita allegoria incarnata in un essere malvagio, perché mostra come l’uomo si relaziona a un male coerente col reale.

Il libro inizia con una moria devastante di topi. Qui si può vedere come il male ascenda dalle parti più intime e nascoste, in questo caso le fogne: come nel teatro greco l’osceno rimaneva sempre fuori scena, così la peste viene covata fuori dalla città, ma contemporaneamente al suo interno, nella parte più fragile, intima e nascosta.

Da questa moria scaturiscono molte reazioni, tutte indifferenti: il portiere della casa del protagonista, il Dr. Bernard Rieux, pensa che sia uno scherzo di qualche ragazzino. Egli è l’anima popolare, che cerca in un untore la risposta a questa moria; al pari di chi additava gli untori ai tempi delle grandi pesti che hanno colpito l’Europa a più ondate, il portiere cerca una colpa umana, una causa raziocinante, che permetta di non toccare l’ambito della malattia.

Il Dottor Rieux, d’altra parte, cerca di combattere l’ascesa della peste con i mezzi della medicina dell’epoca, a Orano, una cittadina dell’Algeria, allora colonia francese, ma comunque lontana dalle tecnologie europee. In questa battaglia l’eroe è tendenzialmente impotente, ha pochissimi successi, ma non è questa la valutazione principe che permette di leggere questo libro con la dovuta attenzione: i temi che pesano di più sono l’esilio in patria e l’amore negato. Sono temi legati l’uno all’altro, perché gli esiliati per la peste, esiliati dal mondo, sono anche allontanati dalle loro amanti e quindi doppiamente emarginati.

L’ascesa di questo male porta un’intera cittadina in un limbo, in cui l’amore e i sentimenti esistono, ma diventano vieppiù ovattati, quasi scemanti, onnubilati dalla malattia. Ci sono diversi passaggi in cui si descrive il climax per cui gli individui, man mano che muoiono i loro cari, cominciano a concepire la vita con indifferenza, ricordando a mala pena i loro morti, per sopravvivenza o per rassegnazione. Alcuni cercano di fuggire, uscire illegalmente dalla città, chi per amore, chi per impazienza, chi per paura. La sospensione di ogni diritto però non lascia adito a queste pratiche, che vengono punite con pene estreme.

All’inizio della peste molti si recavano in cattedrale, per aggrapparsi a quel poco di speranza che ancora rimaneva: la religione. Ed è su questo punto che vorrei incentrare il discorso di questo articolo, perché in essa vi sono vari spunti di come si possa reagire di fronte all’ascesa di un male endemico. Ancor più centrale diventa la religione per la posizione in cui sono poste le due prediche di Padre Paneloux, una all’inizio dell’epidemia, l’altra a precorrere la fine della peste.

E la domenica una folla considerevole invase la navata, traboccando sin nel vestibolo e sugli ultimi gradini.

… e quando [Paneloux] attaccò l’uditorio con una sola frase veemente e martellata: “Fratelli miei, voi siete nella sventura, fratelli miei, voi lo avete meritato”, un fremito percorse l’uditorio sino al vestibolo (p. 73).

Di seguito lo stesso narratore afferma:

Ma il seguito del discorso fece poi intendere ai nostri concittadini che, con abile procedimento oratorio, il Padre aveva dato in una sola volta, come si vibra un colpo, il tema di tutta la sua predica (ibidem).

Poi Paneloux cita l’Esodo, non a caso:

«La prima volta che il flagello appare nella storia, è per colpire nemici di Dio. Faraone si oppone ai disegni eterni e la peste, allora, lo fa cadere in ginocchio. Dal principio d’ogni storia, il flagello di Dio mette ai suoi piedi gli orgogliosi e gli accecati. Meditate e cadete in ginocchio» (ibidem).

Questi tre passaggi sono centrali per comprendere come la religione, risposta principe all’irrazionale, in quanto, teoricamente, di fronte a delle tragedie dovrebbe dare ragioni, più della scienza, più della logica, coinvolgendo quella patina di irrazionale che tutti noi condividiamo, intende affrontare l’ascesa di un male cui è impossibile trovare ragione; già dall’inizio si intravede un’idea di colpa imprescindibile, da accettare passivamente: se Dio ha scelto questo destino per Orano e i suoi abitanti è loro demerito, una colpa irrazionale e condivisa da tutti. Questa visione, tipica di certo Cattolicesimo, viene veicolata con efficacia da Padre Paneloux, tant’è che tutti, dal primo all’ultimo, quasi senza volerlo, si inginocchiano, presi dallo sconforto, aggrappandosi con tutte le forze a un senso di colpa e a un Dio su cui non è possibile disputare, perché immersi in una tragedia devastatrice. Questa è la risposta iniziale, sul segno della colpa, per cui non si riesce ad accettare che tutto questo male sia immotivato: è un tentativo estremo di razionalizzare.

[Tarrou] Aggiungeva soltanto che, per troncare la questione, sarebbe stato necessario sapere qualcosa sull’esistenza d’un genio della peste, e che la nostra ignoranza su questo punto rendeva sterili tutte le opinioni che se ne potevano avere (ivi, p. 72).

In questo passaggio, sulla base dei taccuini di Tarrou, un amico di Rieux, si definisce alla perfezione la totale ignoranza sull’effettivo senso della peste, un microorganismo mortale con cui non si può scendere a patti, che diventa simbolo dell’incapacità dell’uomo di fronteggiare cose troppo al di là del comprensibile. È ovvia quindi la prima risposta che dà la religione: c’è una colpa ed è nostra. Quindi l’ascesa del male è stata provocata non da un moto irrazionale e incontrollato, ma dal genere umano.

Questa visione viene a crollare nel secondo discorso del Padre, il quale si rende conto di come questo male non possa essere accettato passivamente; riconosce così l’incontrollabilità di questa ascesa dopo aver assistito alla morte del figlio del giudice Othon.

È così che si fa strada il vero senso di quest’ascesa. Dopo un dibattito tra Paneloux e Rieux emergono due visioni ben distinte e al contempo vicine: da una parte il dottore, che ha «un’altra idea dell’amore» e che si rifiuterà «sino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati» (p. 169), riconoscendo però che sia lui, sia il prelato lavorano per lo stesso fine, la salvezza dell’uomo; dall’altra Paneloux che parla di grazia, affermando di averne finalmente compreso il senso, orientando quindi il suo campo d’indagine nell’irrazionale, sì, ma comunque non tanto distante dalla visione molto terrena e umana di Rieux, concludendo entrambi che alla fine «noi siamo insieme per sopportarli e combatterli [i.e. la morte e il male]» (ibidem). Qualche giorno dopo il Padre invita Bernard alla sua predica.

La gente è poca. Ormai, come scrive Camus, «la stessa parola di “novità” aveva perduto significato» (p. 170) e, in quei tempi disperati, hanno la meglio le profezie, che più della religione consolano perché danno più certezze, fornendo previsioni precise sulla fine del male, cosa che la fede non arriva a fare. Da sottolineare come questa predica, a differenza della prima, non viene riportata col virgolettato, se non in certi passaggi, denotando come l’immedesimazione del narratore sia più profonda.

Già dall’esordio si vede come non ci sia più quell’aria di accusa per qualcosa di irrazionale che imperversa, distrugge e uccide.

Egli diceva pressappoco che non bisognava tentare di spiegarsi lo spettacolo della peste, ma cercar d’imparare quello che si poteva impararne. Rieux capì […] che non c’era nulla da spiegare. […] Paneloux disse fortemente esservi cose che si potevano spiegare riguardo a Dio e altre che non si potevano (p. 172).

In questa predica c’è un saggio condensato di come dovrebbe porsi la religione di fronte all’ascesa di un male: non come un bene divino, quasi desiderabile, come vagheggiato nella prima predica, forte di esempi discutibili, bensì con la sua accettazione, praticando però un fatalismo attivo, ossia un atteggiamento combattivo verso il male. Diventa centrale la morte del figlio di Othon: questa morte «bisognava volerla in quanto Dio la voleva» (p. 174), ossia il Cristiano deve passare da questa tragedia per capire il senso intimo del male che affligge Orano. Ma il culmine del discorso lo si raggiunge alla fine:

«[…] A questa terribile immagine bisogna che ci adeguiamo; in cima, tutto si confonderà e si eguaglierà, la verità sorgerà dall’ingiustizia apparente. Per questo, in molte chiese del Mezzogiorno della Francia, gli appestati dormono da secoli sotto le lastre del coro e i preti parlano al disopra di loro sepolcri, e lo spirito ch’essi propagano sorge da quella cenere a cui anche i bambini hanno portato la loro parte» (p. 176).

Questo passaggio è estremamente importante per comprendere il valore dell’ascesa di un male, perché soprattutto tramite la religione apprendiamo appieno certe fragilità dell’animo. Queste due prediche occupano, come già considerato, due assi portanti del romanzo: sono l’evoluzione di un’anima collettiva che, decimata dalla disperazione, trova una risposta che non risponde, un senso insensato. Per questo bisogna accettare, ma al contempo combattere la malattia, che diventa anche simbolo: di fronte all’insensato, all’inspiegabile, che ancora occupa gran parte delle nostre esistenze, l’unica ascesa possibile in risposta a questo vortice di suggestioni e inspiegabile è il restare a questo mondo e trovare una via parziale che permetta una realizzazione.

La peste, quindi, non tratta di una semplice malattia che ascende e percuote, ma di un’altra ascesa, positiva per certi versi: l’ascesa dell’umanità, un’umanità che non ha bisogno di un oltre per spiegare sé stessa, tanto meno del timore di esso, bensì ha le risposte in sé stessa, nei propri mezzi e nelle proprie incertezze. E proprio in questo sta l’ascesa dell’uomo: nell’incertezza.


Note

1. A. Camus, La peste, Bompiani, Milano 2014.

Autore

  • Tre anni di Lettere Antiche, ora a Medicina e Chirurgia. Per non perdere l'identità si rifugia nella letteratura, da cui esce solo per scrivere qualcosa. Può suonare strano, ma «Un medico non può essere tale senza aver letto Dostoevskij» (Rugarli).

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