Lettera a un ostaggio

di Alessandra Cappelletti

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Saint-Exupéry e Léon Werth: l’amicizia fra due uomini così diversi insegna qualcosa sul rapporto dell’individualità di uno scrittore con la dimensione sociale in tempi di guerra, e cioè che siamo vivi non nonostante ma grazie agli altri.

Chiunque abbia letto Il Piccolo Principe in una delle duecentocinquanta lingue in cui è tradotto si sarà chiesto almeno una volta – magari non a sei anni, magari non a sedici, ma a venti o trenta forse sì – chi mai fosse il misterioso personaggio cui l’opera è dedicata: «A Léon Werth, quando era un bambino». È una di quelle faccende collaterali che un libro di culto, spontaneamente, genera da sé. E sarebbe niente più di questo se il nome non comparisse, soltanto un anno più tardi, in Lettera a un ostaggio, l’ultima opera di Antoine de SaintExupéry prima di quel volo fatale sopra il Tirreno, il 31 luglio 1944. Si tratta nientemeno che di un’intensa meditazione sulla guerra e sull’amicizia, dove Spirito è scritto con la maiuscola e la parola “verità” compare tre volte in venti righe, ma in cui pure si dice, non senza una certa disinvoltura, che la pace è mangiare pane e salame in riva alla Saône con Léon Werth. Un vezzo, una stramberia? Il gusto tutto francese di fare poesia delle piccole cose? O al contrario un’intuizione profonda, un serio convincimento, una versione più che umana di ciò che significa solidarietà? Tutto ciò che sappiamo da Il Piccolo Principe è che Léon è il migliore amico di Antoine, che abita in Francia e che merita una dedica speciale, perché «ha fame, ha freddo e ha molto bisogno di essere consolato»1 . Il motivo compare poi nella Lettera: Léon è ebreo e il suo paese è occupato dai nazisti. Sappiamo inoltre che rifiutò dagli Stati Uniti l’offerta di asilo per chiudersi in una solitaria resistenza a Saint-Amour, nella regione montuosa della Jura. Antoine invece sceglie l’esilio: nel 1940 attraversa il Portogallo e si imbarca sul piroscafo diretto a New York, convinto che non ci sia posto per lui nella Francia collaborazionista. A fargli compagnia non ci sono i disperati che chiedono asilo, e nemmeno gli immigrati in cerca di fortuna, bensì i cosiddetti “rifugiati”: colti e benestanti, fuggono dal proprio paese in miseria per mettere al sicuro il loro patrimonio. Sono gli stessi che si incontrano al casinò di Estoril, una cittadina nei pressi di Lisbona, per giocarsi una fortuna che probabilmente non hanno più in una moneta già fuori corso, oppure al sicuro in casseforti minacciate dal fuoco nemico. Sono fantasmi ostinati, pupazzi senza vita, gli ultimi sopravvissuti di una specie estinta che si sforzano ancora di credere «alla legittimità della loro febbre, alla copertura dei loro assegni, all’eternità delle loro convenzioni»2 . Sono i reliquiari, i recidivi, quelli che a tavola tengono apparecchiato il posto di un morto, convinti che nessuno oserebbe annientarli al massimo del loro splendore. E invece succede. E così il piroscafo diventa una nave fantasma, i suoi passeggeri “anime nasciture”, senza passato, senza una casa cui tornare, e il viaggio da Lisbona a New York l’occasione per porsi una domanda: cosa distingue il viaggiatore dal migrante? Oppure – che è lo stesso: qual è la sostanza dell’uomo, la cifra significativa che lo distingue dal fantasma e dal pupazzo? Il cantore della volpe non ha dubbi: è l’amicizia. Quella “rete di legami”, quell’”insieme di polarità” e di “forze invisibili” che disegna una sorta di campo magnetico capace di scongiurare la dispersione e l’annientamento. E allora quei fantasmi sono innanzitutto orfani cui sia stata negata la necessità di essere chiamati e interpellati, e che pertanto dimenticano assai presto il suono del loro nome. «A scoprire amici che ci aiutano facciamo presto», dice l’autore. «Quelli che ci chiedono di essere aiutati, li meritiamo lentamente»3 . Ed ecco la risposta: è il bisogno che qualcuno abbia bisogno di noi a renderci più di tutto umani; o – che è lo stesso – è il legame con la casa a definirci viaggiatori, e non già esuli senza ritorno. È qui che la riflessione universale sul significato dell’umano trapassa nel ricordo, tutto privato, dell’amico Léon, che è in patria a rischiare la vita. E Antoine lo dice senza mezzi termini: «Ho bisogno di crederlo ignorato dall’invasore […] Soltanto in questo caso, errando lontano dall’impero della sua amicizia, che non ha frontiere, mi è consentito di sentirmi non emigrante, ma viaggiatore»4 . Potremmo dirlo anche così: ho bisogno di crederti vivo per sapermi vivo. Come ne Il Piccolo Principe, anche qui Antoine potrebbe rivolgersi alle stelle per ritrovare il suo amico, e del resto lo scenario non cambia: è il deserto del Sahara, luogo dell’anima e adesso campo di forze in cui tutto è polarizzato, tutto orienta, e ciascuna stella è la stella cometa. Ma cosa spinge all’aggregazione? Come agiscono le “forze invisibili” che definiscono un orizzonte comune? Quali sono quegli “istanti capitali” che legano gli uni agli altri in modo tanto indiscernibile? Per esempio, si direbbe, mangiare pane e salame in riva alla Saône. Senza scherzo. Soprattutto se accade qualche giorno prima della guerra, e in modo particolare se decidono di berci su il Pernod delle grandi occasioni (eppure Léon non potrebbe bere, gliel’ha vietato il medico). E quella è davvero una grande occasione, anche se nessuno sa spiegarsi perché. Antoine parla di una certa “qualità della luce”, di una “invisibile festa” cui partecipano non soltanto la cameriera e due marinai che passano di lì, ma anche il cosmo, l’universo, il creato, tutto: «Tu eri d’accordo. Io ero d’accordo. I marinai e la cameriera erano d’accordo. D’accordo su che cosa? Sul Pernod? Sul senso della vita? Sulla mitezza della giornata? Non avremmo saputo dirlo neppure noi»5 . Questo accordo misterioso, questa pace al riparo dal disordine del mondo, così vera che non si può dire, non è nient’altro che questo: pane e salame in riva alla Saône, sulle sponde della seconda guerra mondiale; un pranzo dei vivi in barba alla tavola apparecchiata per il morto, laggiù a Lisbona. E se ci sembra poco, pensiamo allora che Antoine sarebbe stato disposto a combattere per conservare questo: una certa qualità del sorriso. Perché è con un sorriso che, ostaggio lui stesso dei miliziani anarchici nella guerra civile spagnola, chiede una sigaretta, scioglie il dramma e si guadagna, in modo quasi fiabesco, la liberazione. Qualcuno ha definito Lettera a un ostaggio “il poema della restaurazione del sorriso”. L’espressione, per quanto sinistra, dice molto del valore politico del sorriso: è il ringhio incivilito, la violenza addomesticata, la posa plastica della tregua e, infine, l’immagine della solidarietà. «Del sorriso dei salvatori, se ero un naufrago», scrive, «del sorriso dei naufraghi, se ero un salvatore, mi ricordo come di una patria in cui mi sentivo immensamente felice»6 . Questa solidarietà non cancella le differenze. Solo, permette di accedere alla sostanza, che è prima di tutto «desiderio cieco di un certo calore»7 . In questo viaggio ciascuno si riscopre polo all’interno di campo di forze invisibili che conservano la tensione come un dato fisico, la differenza come un valore politico. È il nazista, dice l’autore, colui che rispetta esclusivamente chi gli somiglia, e dunque solo se stesso. «Noi riconosciamo come nostri simili anche coloro che sono differenti da noi. Ma quale strana parentela! Essa si fonda sull’avvenire, non sul passato. Sul fine, non sull’origine. Siamo gli uni per gli altri come pellegrini che, per strade diverse, si incamminano verso lo stesso appuntamento»8 . In questo cammino comune, ognuno ha il suo posto e il suo passo: al militare è richiesto servire la patria, all’ostaggio invece spetta fondarla, nutrirla di quella verità che sempre sorge nei momenti di oppressione. E così alla fine l’autore, che qui adesso è soprattutto soldato, si rivolge all’amico ostaggio, e agli altri quaranta milioni: «Non c’è paragone tra il libero combattimento ed essere annientati nella notte. Non c’è paragone tra il mestiere di soldato e il mestiere di prigioniero. Voi siete i santi»9 . Curiosamente, la Lettera descrive quel doppio movimento che anche l’I King ci raccontava: da una parte, il desiderio di aggregarsi attorno a quel fuoco, la forza invisibile e sotterranea che unisce i singoli in qualcosa di più grande; dall’altra, l’umiltà di farsi da parte, la coscienza del militare che sa che il suo posto non è quello dei santi. Siamo vivi non nonostante, ma grazie agli altri: è questa, in definitiva, la grande lezione della Lettera, e insieme lo schiaffo più forte alla logica della guerra, che invece vorrebbe imporci la disgiunzione. E a proposito, Léon non aveva molte cose in comune con Antoine. Tanto per cominciare, era ebreo, anarchico e bolscevico. E poi era di ventidue anni più vecchio, e il suo stile surrealista era assai lontano dalla sobrietà dell’autore de Il Piccolo Principe. Eppure, appresa la notizia della scomparsa dell’amico, così commenterà: “La pace, senza di lui, non è pace del tutto”, perché – si può dire – non può esservi pace senza differenza, né solidarietà senza tensione. Lo dice molto bene una delle rare foto che ritraggono Léon Werth: vestito di tutto punto in divisa militare, ai piedi un minuscolo cavallo a dondolo, quasi fosse tutto teso a tenere insieme il principe e il bambino, il soldato e il santo.


Note:

1. Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, tr. it. Nini Bompiani Bregoli, Bompiani, Sonzogno, 1998, p. 5.

2. Id., Lettera a un ostaggio – Bisogna dare un senso alla vita degli uomini, a cura di Mario Bertin, Elliot, Roma, 2014, p. 18.

3. Ivi, p. 21.

4. Ivi, p. 25.

5. Ivi, p. 28.

6. Ivi, p. 35.

7. Ivi, p. 38.

8. Ivi, p. 36-37.

9. Ivi, p. 41.

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