Konrad Lorenz – Il cosiddetto male

di Filippo Scacchi

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Due tipi di violenza nel regno animale: una esterna, diretta contro le altre specie e atta a ferire; un’altra rivolta verso i propri simili e dovuta a fattori di competizione che, però, vengono controllati dall’attesa, che differisce l’atto violento sublimandolo nella minaccia.

A meno che viviate da soli come eremiti in una grotta, è possibile che qualche volta nella vostra vita abbiate avuto a che fare con un altro essere umano. Se siete un po’ come me, è probabile che in qualche momento di questa interazione abbiate sentito l’impulso di arrecare dolore fisico al vostro interlocutore. Se l’avete fatto siamo più diversi di quanto pensassi, ma se invece no probabilmente dovete ringraziare alcuni meccanismi comportamentali molto antichi che ci permettono di convivere giornalmente gomito a gomito con persone che vorremmo vedere esposte sul Taigeto.

L’aggressività non è un’aberrazione del comportamento, bensì una caratteristica fondamentale nella vita di tutti gli esseri viventi, dalle piante che secernono tossine per difendersi dai parassiti ai maschi di leone che uccidono i cuccioli per rendere le femmine fertili, dalle formiche che combattono vere e proprie guerre contro i formicai vicini fino ai germani reali che violentano le femmine e arrivano a volte persino ad ucciderle. Proprio l’aggressività è stata l’oggetto di studio di uno dei più famosi ricercatori del comportamento animale: l’ormai celeberrimo Konrad Lorenz, che all’argomento ha dedicato un intero libro (L’aggressività1 o Sull’aggressività, uscito in Italia anche con il ben più poetico titolo Il cosiddetto male). Lorenz distingue due situazioni molto diverse: quella in cui l’aggressività è rivolta a membri di un’altra specie (aggressività inter-specifica, ad esempio la predazione) e aggressività all’interno della stessa specie (aggressività intra-specifica, ad esempio le competizioni tra maschi).

L’aggressività del primo tipo è noiosa e non merita di venire qui dibattuta: le pulsioni aggressive di un predatore nei confronti di una preda e la possibile reazione violenta della preda non credo che necessitino di particolari spiegazioni. L’aggressività interna è invece molto interessante, poiché si presenta a prima vista come un paradosso: com’è possibile che si sia evoluto e mantenuto nel corso di milioni di anni, in innumerevoli specie diverse, un comportamento che porta gli individui di una stessa specie a combattersi l’un l’altro? In realtà, se osserviamo una popolazione di qualunque specie nel suo ambiente naturale, notiamo che le aggressioni sono molto sporadiche e non hanno quasi mai esiti fatali o anche solo gravi; la maggior parte degli eventi violenti avviene di solito solo tra maschi adulti, e solo in particolari situazioni (legati all’accoppiamento o alla difesa del territorio) e in maniera codificata. Questa ritualizzazione della violenza è molto comune e molto ben studiata (ancora una volta grazie al lavoro di Konrad), e permette a due individui di confrontarsi senza effettivamente mettersi in reciproco pericolo di vita. Chi non ha mai visto due cani abbaiarsi furiosamente a pochi centimetri di distanza come se stessero per saltarsi alla gola, per poi dirigersi ad alzare la zampa contro un albero ed andarsene tutti impettiti come se avessero dimostrato qualcosa?

Nelle parole di Lorenz: «Un comportamento aggressivo ritualizzato è formato da un insieme di elementi abbastanza stereotipati e convenzionali, come grida, esibizioni di parti corporee a effetto terrifico, movimenti alterni di avvicinamento, fuga, accerchiamento, atteggiamenti di minaccia o di resa incondizionata; ben difficilmente le armi micidiali dei contendenti, zanne, artigli, corna ecc. sono impiegate per uccidere. Il lupo vincitore non azzanna a morte il lupo vinto che gli offre, in atto di sottomissione, la gola, ma cavallerescamente permette all’antagonista di andarsene incolume. I daini cozzano le corna, ma, anche se uno degli avversari, nel corso della lotta, scopre il fianco, l’altro non gli vibrerà mai un colpo mortale in questa regione; aspetterà, invece, che il nemico ritorni in posizione frontale per riprendere l’assalto».

In entrambi i casi citati da Lorenz uno dei competitori si trova, volontariamente o per caso, in una posizione di forte svantaggio rispetto all’altro, mostrando una zona estremamente vulnerabile del corpo ed esponendosi al pericolo di venire ucciso. Eppure, in quel momento qualcosa accade: il mostrarsi deboli e sottomessi, anziché incoraggiare il nemico ad affondare il colpo mortale lo convince a desistere dall’attacco. Il vinto, esprimendo la propria sudditanza nei confronti del vincitore ne inibisce l’aggressività.

Questo fenomeno accade in moltissimi animali diversi e, in certa misura, anche nell’uomo. Ricordo per esempio di aver partecipato alcuni anni fa ad una sorta di esperimento sociale in cui una ventina di persone veniva divisa casualmente in due gruppi, “guardie” e “prigionieri”. Le guardie erano incaricate di far spostare i prigionieri fino a raggiungere un’area delimitata distante poche decine di metri, usando ogni mezzo che ritenessero necessario. Ai prigionieri era chiesto di restare sul posto e non lasciarsi spostare, ma era loro impedito di usare violenza in qualsiasi modo. Le guardie, di cui anch’io facevo parte, si misero all’opera con fin troppo zelo e in breve tempo una buona parte dei prigionieri aveva raggiunto la “cella”. I pochi superstiti cercavano di ragionare con le guardie, di aggrapparsi gli uni agli altri per non farsi portare via, qualcuno cercava di scappare, ma noi guardie godevamo troppo di questa posizione di dominanza per fermarci. Finché una ragazza, una degli ultimi prigionieri rimasti, è scoppiata a piangere. E in quel momento è cambiato tutto, le guardie si sono come congelate, il divertimento improvvisamente finito, il gioco diventato qualcos’altro.

Per essere chiaro, mi stavo divertendo tantissimo. Godevo del mio potere di spadroneggiare su qualcun altro, forte della forza del gruppo e autorizzato dall’alto a fare quello che facevo, con la consapevolezza che, dopotutto, si trattava solo di un gioco. Ma nel momento in cui quella ragazza si è messa a piangere mi sono sentito un assassino. Tuttora non so se stesse fingendo, se fosse sinceramente spaventata o se stesse usando l’astuzia dei meccanismi ancestrali per inibire la nostra aggressività. Quello che so è che ha funzionato alla perfezione.

Nel momento in cui una persona si è mostrata del tutto vulnerabile e alla nostra mercé, allora la nostra “aggressività” è venuta meno. Eravamo nella più totale impossibilità di farle del male.

Viene allora da chiedersi come sia possibile che la storia dell’uomo sia così infarcita di guerre e battaglie e i nostri giornali pieni di omicidi e violenze se esistono meccanismi millenari che ci dovrebbero impedire di far del male al nostro prossimo. La risposta è ovviamente complessa e non credo che sia possibile darne una spiegazione esaustiva, ma è probabile che sia correlata a diversi fattori. In primo luogo gli esseri umani hanno creato delle armi di grande potere distruttivo (anche senza scomodare le terribili armi moderne, una semplice lancia o una scheggia di pietra affilata sono molto più letali delle semplici mani nude), senza contemporaneamente evolvere dei meccanismi di inibizione altrettanto efficienti. Inoltre gli atti di violenza sono generalmente rari e sporadici, e la maggior parte degli esseri umani trascorre la propria vita senza mai attivamente far del male a qualcuno. È probabile che i casi di violenza che popolano i media siano più espressioni di deviazioni individuali che segno di una tendenza generale, comune all’intero genere umano. C’è inoltre da dire che il nostro stile di vita difficilmente potrebbe venire definito naturale, ed è probabile che vivere in città abitate da milioni di esseri umani ci esponga a quantità di stress che i nostri meccanismi di controllo non sono in grado di gestire; in molti animali si osservano infatti dei comportamenti devianti in situazioni di stress o quando la densità della popolazione è troppo alta. Infine c’è che spesso è difficile per molti avere occasione di sfogare la propria aggressività, vista come incivile e inadatta alla società, e quindi repressa e conservata per esplosioni di rabbia di ben altra entità.

Stiamo qui trattando soltanto quei casi di aggressività individuale e personale, e scegliamo di non addentrarci nei fenomeni di violenza di massa che costituiscono la maggior parte delle pagine di un qualsiasi libro di storia, non perché sia impossibile analizzarne la fenomenologia da un punto di vista naturalistico (gli esseri umani non sono gli unici a combattere guerre), ma per non invischiarci troppo in un discorso probabilmente troppo complesso per venire trattato nel poco spazio rimastoci.

Se a qualcuno è rimasta la curiosità per i temi trattati, non mi resta che augurarvi buona lettura delle opere di Lorenz, sicuramente ben più abile di me nel chiarire tutti i concetti che ho dovuto limitarmi ad accennare; purtroppo i libri di Lorenz non sono più facilissimi da trovare, quindi nel caso vi troviate a dover lottare per ottenerli, ricordate: è accettabile e naturale urlare contro la bibliotecaria.

immagine articolo biologia - combattimento ritualizzato tra due iene maculate (crocuta crocuta)

Crocuta crocuta. Combattimento ritualizzato tra due iene maculate.


 Note:

1. K. Lorenz, L’aggressività, Il Saggiatore, 2008.

Autore

  • Laureato in Scienze Naturali e appassionato di subacquea, è scappato sei mesi alle Maldive. Lui sostiene che stesse facendo un master, le foto con tartarughe e squali sostengono il contrario. È uno dei redattori interni della rivista e gestisce la rubrica di Biologia.

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