di Giulio Giorello
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Cari amici,
la domanda della Tigre di Carta, “Che pensare dell’esodo di sette docenti del Dipartimento di Filosofia verso quello di Storia?” mi induce ad alcune considerazioni anche alla luce di un articolo comparso il 15 dicembre 2015 nelle pagine milanesi della Repubblica. La tesi degli “scissionisti”, tra cui spicca il docente di Estetica Elio Franzini, è che il nostro Dipartimento di Filosofia verrebbe “snaturato” dall’atteggiamento di chi – a cominciare dal Direttore Sandro Zucchi – ha operato una coraggiosa politica di apertura a protagonisti della ricerca emersi dai più vari settori scientifici. Dal novembre 2015 sono in pensione, e dunque mi posso permettere uno sguardo spassionato su questo “molto rumore per nulla”. Non si tratta di una reazione alla “crescente influenza delle discipline informatiche e neuroscientifiche”, ma di un nervosismo nei confronti della pratica scientifica comunque e dovunque. Una avversione che ha radici antiche in un certo umanesimo italico che un tempo bollava le categorie scientifiche come pseudoconcetti e trattava le teorie della fisica e della biologia come pure “ricette da cucina”. Adesso leggo dichiarazioni come quelle del collega Renato Pettoello, storico della Filosofia, per cui l’apertura del Dipartimento e di altre strutture (il Dottorato) “getterebbe alle ortiche un’antica e consolidata tradizione di studi”. Ma quale? Forse quella che si nutre di elucubrazioni sulla teoria della conoscenza, senza cimentarsi in modo serio e rigoroso con le modalità con cui procedono scienza e tecnologia? Avendo lavorato per più di quarant’anni in via Festa del Perdono, ricordo che già in passato alcuni validi esponenti del Dipartimento venivano da settori scientifici come la medicina o la matematica. Non erano fatti occasionali; forte era la rilevanza che assumeva l’interazione con gli scienziati praticanti da parte di una seria filosofia nell’ottica di nostri maestri come Ludovico Geymonat, Enzo Paci e Mario Dal Pra – quest’ultimo vero storico della filosofia, capace di rintracciare la pregnanza delle idee filosofiche nella continua contaminazione con la pratica della scienza.
Dunque, non è in gioco minimamente, anche qui da noi, una contrapposizione tra analitici e continentali. Personalmente, non considero precisa e significativa questa contrapposizione. Non solo perché è possibile che questi due “metodi” – se davvero li vogliamo chiamare così; ma dopo Feyerabend sarebbe il caso di impiegare quella parola con una certa cautela – riescano a “dialogare”, come mostrano i lavori di un Robert Nozick o di un Thomas Nagel (ma ci sono degli interessanti esempi di ciò anche in Italia). Ma anche perché una delle più rigorose critiche a una certa chiusura specialistica della cosiddetta filosofia analitica è venuta da pensatori estremamente attenti alle scienze come Karl Popper, Imre Lakatos, Paul Feyerabend o Hilary Putnam. Per di più, proprio nel campo delle neuroscienze si sta aprendo un vivacissimo dibattito tra posizioni anche molto diverse, capace di riscoprire nelle pieghe di discipline scientifiche i grandi temi filosofici di pensatori come Spinoza e Hume. Valga per tutti il caso di Antonio Damasio. Si tratta certamente di un territorio di frontiera, in cui però il nostro paese è favorito dal fatto che alcuni aspetti particolarmente pregnanti sono stati messi a punto o approfonditi da gruppi di ricerca come quello guidato da Giacomo Rizzolatti nel campo dei cosiddetti neuroni specchio. È chiaro che qui non si chiede a studenti, dottorandi o colleghi di aderire a un partito filosofico contro un altro, ma di poter esprimere le proprie opinioni sfruttando l’aiuto che viene da matematici, fisici, biologi, fisiologi interessati a tale dimensione filosofica. Questi colleghi, quando entrano in un Dipartimento come il nostro, con ciò stesso offrono un elogio della filosofia, che il filosofo “professionista” – se mai questo termine ha un senso – dovrebbe essere il primo a sollecitare. Altro che il grido di dolore, in realtà alquanto scomposto, del collega Franzini, che teme che l’apertura a bravissimi ricercatori scientifici ci faccia “perdere l’identità” di filosofi o ci spinga a optare per una sorta di “identità multipla”. Basterebbe fargli notare che l’ossessione monoidentitaria pare oggi prerogativa dei più vari movimenti totalitari, mentre la miglior filosofia dell’Occidente da secoli ci ha insegnato che ogni singolo individuo gode di una multipla identità. Questa molteplicità non è una perdita ma una ricchezza, che si può opportunamente sfruttare se si è in grado di produrre lavori scientifici di buon livello nazionale e internazionale, al di là di sterili contrapposizioni disciplinari di marca analitica o continentale che sia.
Vostro
Giulio Giorello
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