di Franco Trabattoni
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Quando qualche anno fa mi è stato chiesto di presentare agli studenti il corso di laurea in filosofia, ho dichiarato pubblicamente che io ho una concezione piuttosto generosa circa la natura di questa disciplina. In altri termini, a mio parere esistono tanti modi, fra loro diversi, di interrogarsi sul mondo (o più semplicemente di parlare di esso) che possono a ben diritto definirsi, in senso più o meno ampio, “filosofia”. E se dovessi individuare un minimo denominatore comune, aggiungerei che condizione imprescindibile affinché si possa dire che un certo testo o una certa pratica sono classificabili come filosofia è l’uso dell’argomentazione. Un’argomentazione, si intende, che non ha necessariamente carattere logico-dimostrativo, ma che comunque è altra cosa dalle suggestioni che possono essere sollecitate, ad esempio, da una poesia o da un brano musicale (ancorché sia evidentemente possibile che queste suggestioni siano la causa e lo stimolo di riflessioni propriamente filosofiche).
Ho fatto questa premessa non perché io intenda trattare in questa sede il problema della natura della filosofia, e nemmeno per spiegare le motivazioni che mi hanno condotto alla posizione che ho sopra esposto. L’ho fatto per mostrare che per quello che mi riguarda ogni possibile battaglia di retroguardia fra analitici e continentali, o fra storici della filosofia e filosofi “teoretici” (come si suole dire in Italia, con un termine che non a caso è intraducibile in inglese), è qui fuori luogo. L’argomento di cui mi interessa parlare, invece, è molto più circoscritto, ed è il rapporto tra la filosofia e le cosiddette “scienze” (“dure” o “molli” che siano). E a questo proposito non è nemmeno in questione, aggiungo, la necessità che la filosofia “dialoghi” con le scienze. In un mondo in cui i sentieri delle varie discipline e delle pratiche culturali si intersecano, come è giusto, in modo sempre più fitto e pervasivo, si tratta di una considerazione piuttosto ovvia. Ma talvolta è utile ripetere anche l’ovvio, soprattutto quando la mancanza di un riconoscimento esplicito dà facile spunto a obiezioni di pronto effetto, ma scarsamente fondate. Quello che è davvero in questione può essere sinteticamente espresso, a mio avviso, citando una notissima frase di Kant: «Confondere i confini delle scienze non significa accrescerle ma deformarle»[1].
Nell’intento di essere il più chiaro e sintetico possibile, preciserò che questa deformazione a mio avviso può avvenire in due modi: 1) supponendo che il compito principale, se non unico, della filosofia sia quello di fornire un fondamento epistemologico alle scienze; 2) supponendo che la filosofia debba avere scopi, contenuti e metodi analoghi a quelli delle scienze.
Iniziamo dal primo punto, anche qui cercando previamente di prevenire dei fraintendimenti. Non intendo dire, come è chiaro, che la filosofia non si debba occupare di epistemologia (il che sarebbe grottesco: ho appena licenziato un volume dal titolo Essays on Plato’s Epistemology). Intendo che la filosofia non ha il compito, per così dire istituzionale, di procurare alle scienze i fondamenti teorici e metodologici, per il buon motivo che le scienze non ne hanno alcun bisogno, dal momento che sono in grado di produrre in modo perfettamente autonomo (e in maniera tanto migliore quanto meno l’approccio è generalista, quale non può non essere il taglio filosofico al problema) principi, fondamenti, metodi e procedure a esse adeguate. Il filosofo che voglia occuparsi di epistemologia deve in primo luogo mostrare che esiste qualcosa come un’epistemologia in generale distinguibile dai singoli e diversi modelli epistemologici praticati dalle scienze; e in secondo luogo (una volta ammesso che la risposta sia positiva) concentrare la sua attenzione sull’epistemologia così definita, senza far dipendere la giustificazione del suo ruolo dai servizi che egli crede di poter di offrire allo scienziato. Fatto questo, ovviamente, si aprono gli spazi infiniti del dialogo. Ma i confini, come vuole Kant, restano separati, e la filosofia non rischia di deformarsi ad ancilla scientiarum.
Al di là delle generiche affermazioni di principio, l’idea che il destino della filosofia sia legato a questa deriva, ossia al progressivo rafforzamento del suo rapporto funzionale con le scienze, è un’immagine molto diffusa, che affonda le sue radici in ben precise motivazioni storiche. Detto in modo necessariamente sintetico e brutale: gli ultimi centocinquant’anni di storia della cultura occidentale per molti osservatori sembrano aver sancito, a un tempo, il pieno successo della scienza e il fallimento della filosofia. La filosofia, si dice, non fa progressi. Perciò i problemi filosofici o sono dei falsi problemi, o sono dei problemi insolubili a priori. Qualunque delle due sia vera, non sembra proprio il caso di perderci del tempo (il tempo, si sa, è denaro). La filosofia, di conseguenza, è morta. Ma i filosofi, allora, che cosa possono fare? Sarebbe rischioso aspettare che i politici si accorgano che la filosofia tradizionale è un ramo secco e un inutile spreco di risorse (anche perché molti di loro se ne sono accorti da un pezzo, e si sono già messi in moto). Così molti filosofi hanno pensato bene di riprendere vita vampirizzando le scienze. Non sparate sull’umanista, dice il titolo di un libro recente scritto a più mani da alcuni colleghi. Ma c’è forse qualcuno che spara sullo scienziato? Certo che no. Forza dunque, amici filosofi, la via da seguire è evidente. Siamo o non siamo scienziati anche noi? Non ci occupiamo forse di “scienze filosofiche”?
Naturalmente non c’è solo questo modo di rispondere a quella che secondo un comune stereotipo sembra essere stata (ed essere ancora) la “crisi” della filosofia. Per la verità io sono molto diffidente nei confronti della nozione di “crisi”, che avendo già di per sé un significato assai vago, viene poi corrivamente utilizzata per qualunque cosa. Ma per quanto riguarda la filosofia, accetto di buon grado l’ipotesi che ci sia stata una “crisi”. E si tratta precisamente della crisi generata dal confronto tra la filosofia e le scienze: quella che tradizionalmente era considerata la regina delle scienze sembra aver perso tutto il suo vantaggio in pochissimo tempo, fino a diventare non dico l’ultima delle scienze, ma una disciplina che non si può nemmeno chiamare scienza, pur senza avere i pregi della poesia e della letteratura. Un altro modo di affrontare questo problema, tanto per fare un solo esempio, è quello adottato da Husserl, che da un lato ha applicato l’etichetta di “crisi” più alle scienze che alla filosofia, dall’altro ha pensato di poter dare alla filosofia una veste rigorosa, pur evitando radicalmente di plasmarne la natura sulla base del modello scientifico. Sarebbe facile, tanto più se lo si fa retrospettivamente, bollare il progetto di Husserl come una velleitaria e ingenuamente ottimistica (per la filosofia, si intende) inversione dei dati. È la filosofia, si potrebbe dire, che è in crisi; ed è in crisi appunto perché la filosofia, in quanto scienza, vorrebbe essere rigorosa. Ma “rigorose” (almeno entro i limiti definiti caso per caso) possono essere solo le scienze, non la filosofia. In contrario, invece, si potrebbe rilevare che il cosiddetto movimento fenomenologico, anche dopo Husserl, è stato ed è tutt’ora una corrente filosofica molto vivace. Ma soprattutto va detto che quello di Husserl è stato forse l’ultimo grande tentativo di proporre la filosofia come “scienza” a titolo proprio, senza che ciò implicasse alcuna confusione tra sapere filosofico e sapere scientifico.
Assai meno pertinenti, almeno per quanto riguarda la filosofia, sono invece a mio avviso i tentativi di trasformare la filosofia in una scienza nel modo in cui ho detto sopra, al punto 2: ossia (ripeto), supponendo che la filosofia debba avere scopi, contenuti e metodi analoghi a quelli delle scienze. Questo modo di vedere le cose a mio avviso è del tutto insensato. La filosofia non fa esperimenti; non ha dati sensibili da raccogliere; non ha protocolli metodologici di riferimento standardizzati. E non ha nemmeno tante altre cose, ossia tutti quei requisiti che nelle procedure nazionali e internazionali di promozione e valutazione della ricerca corrispondono, per il filosofo, ad altrettante caselle destinate a rimanere vuote. Se da un lato siamo riusciti in qualche modo a spacciare i nostri libri per “prodotti della ricerca”, ben più difficile è segnalare non dico quali brevetti o quali innovazioni tecnologiche dipendono da noi, ma anche solo certificare quali sono i “progressi” tangibili che la nostra ricerca fa fare al sapere.
Ma allora, noi filosofi, che cosa facciamo? In un celebre passo della Politica[2] Aristotele dice che l’uomo è l’unico animale provvisto di logos, dove per logos si intende parola, discorso e insieme anche ragione. Ora, poiché da un lato le generazioni degli uomini sono infinite come infiniti, sia per estensione che per intensione, sono i logoi che esse continuamente producono, e poiché dall’altro i problemi discussi dalla filosofia non hanno l’aria di voler sparire un giorno con l’altro, quello che i filosofi hanno fatto, fanno e (si spera) faranno, è produrre «sempre di nuovo» (un motto husserliano che non sarebbe dispiaciuto a Platone)[3] logoi di qualità filosofica (cioè strutturati in forma argomentativa) per discutere, approfondire e se possibile chiarire un po’ meglio quei problemi. Finché la società sarà disposta a sostenere i costi necessari per mantenere una classe, per la verità assai ridotta, di persone che dedicano buona parte del loro tempo a questa attività, noi continueremo a fare filosofia. Se e quando, invece, la società dovesse stabilire che non se lo può più permettere, allora faremo qualcosa d’altro. Ma per favore, che non si spacci questo qualcosa d’altro, qualunque cosa sia, per filosofia.
Note
[1] «Es ist nicht Vermehrung, sondern Verunstaltung der Wissenschaften, wenn man ihre Grenzen ineinander laufen läßt», Critica della ragione pura, Prefazione alla seconda edizione.
[2] 1253a9-10.
[3] Cfr. Fedone 90c-d, 107b.
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