di Carola Benelli
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Quando la potenza della parola sembra schiacciare colui che se ne serve, piuttosto che distaccare il paziente dalle parole – terapia che, in fondo, sembra confermare il potere loro attribuitogli – occorre dimostrare che sono le parole ad essere distaccate dalla realtà.
Prima di cominciare, ho bisogno che tu faccia un semplice esercizio. Batti le mani, io aspetto.
Fatto? Se ti è venuta voglia di battere le mani, o se lo hai fatto veramente, hai appena avuto un semplice esempio dello straordinario potere del linguaggio. Un’attività fisica come battere le mani non è certo ciò che abbiamo in mente quando intraprendiamo la lettura di un articolo su una rivista di arte e cultura, eppure leggere le parole
batti le mani
ci porta immediatamente ad eseguire il comando, o almeno a valutare la possibilità di farlo. Lo stesso vale per
io aspetto
che non corrisponde ad alcuna effettiva azione da parte di chi scrive, in questo momento probabilmente concentrato su altre faccende. Eppure, siamo abituati ad attribuire al linguaggio un valore di verità. è ciò che sostengono i terapeuti ACT1, che non si astengono dall’aggiungere come, in molti casi, un approccio al linguaggio troppo realista e poco flessibile è una caratteristica rilevante dei soggetti con disturbi psicologici. L’ACT, che si può leggere come una sola parola ma è in realtà il significativo acronimo di Acceptance and Commitment Therapy, appartiene all’orizzonte delle terapie cognitive di terza generazione, nate dalla crisi delle certezze di un cognitivis-mo sempre meno persuaso della legittimità di ridurre il complesso orizzonte della psicopatologia ad una serie di pensieri irrazionali da sradicare e sostituire con l’aiuto del terapeuta. Sono nate così l’ACT, la DBT, la MCT e numerosi altri approcci che, al di là dell’orrore delle sigle, portano in sé una straordinaria ricchezza, e cioè quella d’essere nate da un bisogno clinico prima ancora che teorico, di aver risposto in modo ingegnoso ai limiti della tradizione cognitiva e di aver sempre mantenuto una sana attitudine alla raccolta di dati sperimentali che validassero le nuove proposte. Fil rouge di queste terapie, il recupero di alcune tecniche comportamentali, l’attenzione al livello metacognitivo, il tema dell’accettazione. In particolare, l’ACT sostiene che la sofferenza compaia quando le persone credono al contenuto letterale della loro mente al punto che si fondono con i propri pensieri. In alcuni casi, può essere molto utile fare affidamento sul linguaggio e rimettersi ai contenuti della comunicazione verbale, riconoscendo un legame tra la realtà e le parole. Ma ci sono delle occasioni in cui questo approccio al linguaggio si rivela dannoso per il benessere dell’individuo. Pensiamo, per esempio, ad un soggetto con ansia sociale, che metta in atto un continuo rimuginio pensando di potersi in questo modo preparare ad affrontare ciò che il futuro gli riserva.
Arrivata alla festa, devo assolutamente passare inosservata o tutti si accorgeranno che mi sento a disagio.
Se qualcuno viene a parlarmi, diventerò rossa e inizierò a sudare, e allora sarà la fine.
Cosa penseranno di me se non guardo nessuno negli occhi?
Adrian Wells2, esponente della sopracitata MCT3, direbbe che il problema di un disturbo ansioso non sta tanto in queste affermazioni, quanto nei piani di fronteggiamento di uno stimolo stressante e nelle metacognizioni (cioè nei pensieri sui pensieri) che fanno parte di questi piani e li mantengono attivi.
Preoccuparmi mi farà impazzire.
Preoccuparmi è l’unico modo che ho per essere preparata a qualsiasi evenienza.
Il lavoro terapeutico, secondo questa prospettiva, sarà quindi dedicato all’osservazione distaccata dei pensieri di secondo livello (la cosiddetta detached mindfulness) e alla formulazione di nuovi piani, che siano più adattivi. Secondo Hayes, Strosahl e Wilson, fondatori dell’ACT, il problema va letto in termini differenti, attraverso gli strumenti della filosofia della scienza che prende il nome di contestualismo funzionale. Un enunciato non è un fatto reale, bensì un evento linguistico che avviene in un contesto specifico e che può essere compreso solamente alla luce di quel contesto, che gli attribuisce significato. Così, all’affermazione di un paziente depresso
Io non valgo niente e non riuscirò a fare nulla nella mia vita
il terapeuta ACT non risponde domandando
Che prove hai di quello che sostieni?
come potrebbe suggerire un approccio cognitivista standard. Potrebbe invece replicare portando l’attenzione sul qui ed ora, sulle dinamiche del colloquio, chiedendo per esempio:
C’è qualcosa che speri possa accadere riferendomi questo pensiero?
Si tratta naturalmente soltanto di una possibile risposta, ma è interessante notare il lavoro di depotenziamento del linguaggio che il terapeuta cerca di innescare. Gli autori preferiscono utilizzare il termine defusione per indicare il distacco dai pensieri, in favore di un’attitudine distaccata che permetta di osservare ciò che accade nella mente, senza reagire ai pensieri come fossero dati di realtà. La terapia ACT prevede un percorso articolato che non abbiamo modo di affrontare in questa sede, ma sembra lecito affermare che il lavoro sia focalizzato sul passaggio da un funzionamento cognitivo rigido ad uno flessibile, che permetta una migliore relazione con i pensieri negativi e quindi un maggiore benessere. Una migliore relazione con i pensieri significa accettare ciò che si presenta, restare ancorati al momento presente e, come abbiamo detto, ricercare una defusione rispetto ai propri stati mentali. Come?
Prova a ripetere una parola qualsiasi, per esempio ‘latte’, più e più volte.
Molto spesso fare questo semplice esercizio apre uno spazio perché la consapevolezza della natura del linguaggio emerga. Le parole, se ripetute molte volte, ci appaiono strane, o buffe, o insensate. E, in effetti, è questa la loro natura: ci servono per comunicare relativamente a qualcosa che è assente, ma non hanno nulla di reale, non veicolano alcuna verità. Anche parole con una connotazione emotiva importante possono essere private di una parte del loro potere se si prova a considerarle solo come suoni.
Prova a ripetere la parola ‘panico’ più volte.
Se i pensieri sono solo parole, e le parole non hanno alcun legame ontologico con la realtà, allora i pensieri non hanno conseguenze reali e concrete. Pensare che mettersi alla guida dell’auto possa generare un attacco di panico non significa che davvero succeda. Qualche breve esperimento nel corso della seduta può aiutare il paziente a prendere coscienza di ciò.
Vorrei che adesso tu pensassi intensamente “non posso assolutamente alzarmi dalla sedia” e, mentre ripeti questo pensiero, tu ti alzassi dalla sedia.
Prova a dirti “Se cammino per la stanza, mi verrà un attacco di panico” e, mentre lo dici, cammina per la stanza.
I pensieri sono soltanto pensieri, le parole sono soltanto parole. Eppure le parole sono così importanti per la nostra specie che ci aspettiamo di poter sempre fare affidamento su ciò che ci dicono. Capita che il potere straordinario del linguaggio ci faccia prigionieri di un disagio psicologico. La risposta, almeno secondo la prospettiva ACT, non è la scelta di una vita senza parole, ma lo sviluppo di una prospettiva da cui osservare ciò che avviene, attribuendo significati contestuali e non assoluti. Le terapie cognitiviste, nate come antitesi pragmatica ed efficace alla tradizione psicoanalitica, si trovano così a cercare una risposta al problema della malattia in una tradizione antica di contemplazione e meditazione, una tradizione che oggi chiamiamo mindfulness.
Hexaplex
Rappresentazione grafica delle dimensioni coinvolte nella flessibilità cognitiva (Hayes et al., 2012)
Note:
1. Hayes, S.C., Strosahl, K.D., Wilson, K.G. (2012). Acceptance and Commitment Therapy, Second Edition: the process and practice of mindful change. Guilford Press, New York.
2. Wells, A. (2000). Emotional Disorders and Metacognition: Innovative Cognitive Therapy. John Wilet & Sons Ltd, UK.
3. Fisher, P., Wells, A. (2009) Metacognitive Therapy: Distinctive Features, Routledge.