di Victor Attilio Campagna
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Bulgakov: prima di tutto un medico, nel quale la passione per la letteratura non si sopì mai, anzi si accrebbe finché decise di superare la sua professione e diventare scrittore. Eppure, portò con sé tutta l’umanità e la comprensione psicologica di un medico autentico.
Bulgakov fu un grandissimo scrittore, forse tra i più grandi del ‘900. Egli si caratterizzò per dei romanzi onirici, estremamente intelligenti, perché critici nei confronti del regime Staliniano, ma con un garbo e un acume che rendevano quasi impossibile per i più cogliere il messaggio politico. Tra questi si possono ricordare Il Maestro e Margherita e Cuore di Cane. Tuttavia, egli non fu solo un grande scrittore: si laureò in medicina nel 1916 e diresse un ospedale a Nikol’skoe, un villaggio sperduto della Russia. Durante la sua attività in questo piccolo centro nasce Appunti di un giovane medico, una collettanea di racconti apparsi nel 1925 sulla rivista “Medicinskij rabotnik”, che sono stati il punto di congiunzione tra la sua attività medica e di scrittore.
In questi racconti emerge forte la capacità scrittoria di Bulgakov, come una premessa dovuta a quello che sarebbe diventato il grandissimo romanziere russo, insieme ad una sapienza medica quasi manualistica.
In questi racconti emerge l’accrescimento di un giovane medico, che muta ed evolve man mano che si avanza, costruendosi come persona più che come dottore: secondo le sue biografie egli curò 15.613 pazienti a Nikol’skoe e, tra un paziente e l’altro, riuscì a superare tutta una serie di difficoltà, paure, in forza di un abbassamento dell’ego e un sacrificio per i suoi malati. Qui si entra nel tema profondo dell’uomo che si trova di fronte ad una grande responsabilità e deve mettere da parte il proprio Io.
Dunque… Dicono che adesso ci siano pochissime visite. Nei villaggi si macera il lino, le strade sono impraticabili… “È proprio adesso che ti porteranno l’ernia,” tuonò una voce severa nel mio cervello “perché con le strade impraticabili un uomo col raffreddore (malattia facile) non si metterà in viaggio, ma l’ernia la trascineranno fin qui, sta’ tranquillo, caro collega dottore.”
La voce non era stupida vero? Trasalii.
“Taci,” dissi alla voce “mica dev’essere per forza un’ernia. Che sono questi isterismi? Quando si è in ballo, bisogna ballare.”
“Hai voluto la bicicletta, e adesso pedala” ribatté malignamente la voce (pp. 47-48).
In questo breve dialogo tra sé e sé, che ci lascia un tracciato del tono con cui il giovane medico condotto riflette e scrive, si nota come la crisi di un uomo che si trova di fronte ad una grande responsabilità sia il segnavia per una nuova identificazione e per una maturazione: da questo dialogo assurdo emerge una coscienza più forte del terrore; il medico deve abbassarsi alle proprie responsabilità, cui non adempierà nessuno, perché a Mur’e, nome di fantasia del villaggio di Nikol’skoe, è da solo e da tale deve riuscire a superare le tenebre egizie, ossia quell’ignoranza diffusa nel contado che porta alle cose più assurde. Così un medico cresce e impara al meglio il proprio mestiere, fatto soprattutto di sacrifici all’inizio, ma che poi riserva soddisfazioni non da poco, soprattutto per un giovane medico.
«Adesso muore» sussurrò l’infermiere, come se avesse indovinato il mio pensiero. Lanciò uno sguardo al lenzuolo, ma evidentemente ci ripensò: era un peccato insanguinarne uno pulito. Però di lì a pochi secondi la si dovette coprire. Giaceva come un cadavere, ma non era morta. Nella mia testa a un tratto si fece chiaro come sotto la cupola di vetro del nostro lontano teatro anatomico. […]
Tutto si rischiarava nel mio cervello, e a un tratto senza manuali di sorta, senza consigli, senza aiuto capii […] che adesso avrei dovuto fare un’amputazione per la prima volta in vita mia su una persona agonizzante (pag. 52).
Si vede da questo estratto come il giovane medico, di fronte ai propri dubbi, comincia a rischiarirsi perché ha davanti una malata, una giovane donna vittima di un incidente, cui dovrà amputare una gamba per salvarle la vita. Questo processo è molto significativo, perché riproduce sia il momento del dubbio, dell’incertezza del medico alle prime armi, sia la responsabilizzazione, la capacità di reagire e mettere in atto in un momento di tensione quello che i libri non insegnano. Spesso capita di considerare come i manuali, per quanto completi, non riescono a dire del tutto la realtà, ma la dipingono come una sorta di idealizzazione, che solo nel momento della pratica riescono a dipanare.
E a questo punto accadde una cosa interessante: tutti i passi prima oscuri divennero perfettamente comprensibili, come se si fossero inondati di luce, e lì, al lume della lampada, di notte, in quel posto fuori del mondo, capii che cos’è la conoscenza autentica. (pag. 68)
Questi esempi sono solo parte di un libro in cui l’evoluzione del giovane medico rappresenta quella di chiunque. Quel che più insegna questa serie di racconti, infatti, è la responsabilità di fronte agli altri: è per amore del malato, del sofferente, che Bulgakov riesce a spingersi oltre la conoscenza accademica, per ricostruire delle vite. Tant’è che poi la gratitudine lo compensa di doni e facezie, ma non è questo il fondamentale: come uomo egli si supera e abbassa al contempo, per affondare le mani nella carne, nel sangue, una metafora significativa di un individuo che per essere più conscio di sé deve affondare non tanto nello spirito, bensì nelle parti più reali del reale. E in questo sta l’Accrescimento di uno spirito più che di un medico.
A rendere il tutto ancor più interessante è il fatto che c’è molto della vita di Bulgakov in questi racconti. Tra questi, Morfina, forse il più bello, è una storia molto sofferta che ha segnato a vita lo scrittore russo. Non a caso è il più lungo tra tutti i racconti: in esso si narrano le vicende di Poljakov, collega di Bomgard (Bulgakov) all’università, che dopo una delusione amorosa cade nel vortice della droga, diventando morfinomane, con tratti di cocaina nel mezzo. La vicenda inizia con un suicidio con una Browning, una pistola che spesso riecheggia nei racconti e romanzi di Bulgakov, tanto lo colpì questo evento, seguito poi dal ritrovamento di quello che potremmo definire il diario di un drogato. Nella fantasia del racconto non dovette assistere alla penosa scena del suicidio, come invece accadde nella realtà. Anche in questa tragedia risiede una risorsa forte: nel racconto, Poljakov lascia al dr. Bomgard un diario, appunto, che diventa una testimonianza utile per capire il processo psicologico di un drogato. Bulgakov si occupava di malattie veneree, però sentì l’esigenza di riportare questo caso psichiatrico, nonostante non fosse di suo interesse. Tant’è che conclude il racconto con queste parole:
Adesso, a dieci anni di distanza, sono passate la pietà e la paura suscitata da questo diario. È naturale, ma, rileggendo questi appunti adesso che il corpo di Poljakov è da tempo polvere, e la sua memoria si è completamente dissolta, continuo a trovarli interessanti. […] Posso pubblicare gli appunti che mi furono donati?
Sì. Li pubblico. Dottor Bomgard (pag. 185).
In questo racconto, più degli altri sta il concetto di accrescimento, perché da un dramma personale Bulgakov trae il lato positivo del tramandarne i dettagli, per lasciare un testimone e per poter aiutare altre persone che si troveranno in situazioni simili. Difatti in questi appunti emerge appieno e con dovizia di particolari il processo psichiatrico che conduce un individuo a dedicarsi alle droghe, con una capacità interpretativa e d’immedesimazione rare a trovarsi negli scrittori. Un racconto del genere andrebbe letto da ogni medico, perché rappresenta con forza e dignità la vita e la morte di un medico che si è lasciato inghiottire dalla droga, ma, contemporaneamente, ha lasciato una testimonianza importante della propria malattia. Cosa più di questo rappresenta l’accrescersi culturale ed emotivo?
Potrei proseguire con altri esempi, ma più di tutto quello che deve far riflettere è l’interpretazione che si dà del mestiere di medico
: non è un semplice prescrivere e curare. È qualcosa di più profondo e terribile, che rende questo libro universale: l’uomo, nel caos dei suoi patemi, deve sempre fare un passo in più per raggiungere la coscienza di sé. Questo passo coinvolge per forza di cose l’altro e il sacrificio nei suoi confronti, perché senza di esso si conduce una vita a metà, ossia deprivata di contesto. Infatti, dopo il compimento del medico, viene la coscienza di essere uomo tra gli uomini e in mezzo a questa sofferenza si costruisce non tanto un buon medico, ma un individuo, libero e cosciente. Tant’è che Bulgakov nel 1920 abbandonerà l’attività di medico per la letteratura, perché sapeva che l’attività di medico non gli avrebbe dato la libertà che sentiva necessaria.
Ecco, in questo sta la grandezza non solo di uno scrittore che ha fatto la Storia della Letteratura, ma anche di un uomo tra gli uomini. E nei suoi appunti di giovane medico stanno le premesse di questo accrescimento, dove a maturare non è tanto un mestierante, come già detto, ma un uomo, con tutti i suoi dubbi e le sue incertezze, messe da parte proprio per guadagnarsi quel “nirvana non-dimorante”, tanto difficile da raggiungere quando non se ne è capito il principio: non bisogna essere grandi eroi, anzi. La via è l’umiltà. E Bulgakov non solo era umile: era umano, estremamente umano.