In palio c’era una bottiglia di vino indiano, ma per capire cosa c’entra bisogna prima andare un po’ a spasso con la mente. Partiamo dall’estrazione del nostro esagramma durante l’ultima presentazione della rivista, quando si offriva assieme al cibo, infatti, una bottiglia di Sula – un tipo di brut prodotto nel Maharashtra – in premio all’esperto pescatore del bigliettino con il numero corrispondente all’esagramma: «Numero diciotto!»… si alza timida e implacabile la mano di “Vanna”… pardon, la Prof.ssa Scolari Ghiringhelli, ex docente di hindi, Vicepresidente del Centro Italia-Asia e… donna fantastica! Come dire: i panni lavati in casa (il Gange stavolta, non l’Arno).
Risultato? L’esagramma 18, per l’appunto, dal titolo: L’emendamento delle cose guaste.
«Ahia!» – pensiamo noi – «è finita la pacchia degli esagrammi smielosi e promettenti». Ci viene servita, anzi, «una scodella nel cui contenuto crescono vermi», dice l’I Ching. Preannuncia forse un ristagno della nostra amata rivista? Beh, i recenti ritardi editoriali non smentiscono. In fondo, però, perché non usare l’I Ching come scarica barile (dato che ci aveva lasciati con l’immagine del Pozzo)? «È colpa sua!», gridiamo orsù, «ci ha illusi con troppe lodi!». Eh no, non funziona. Il ristagno è, a voler leggere il testo, «la conseguenza della libertà umana», altro che destino oracolare, accidenti!, anche se magari il suo compito è quello di tirarci fuori dai guai. Nemmeno. «Ciò che fu guastato per colpa degli uomini» – rivela impietoso – «può essere di nuovo emendato dal lavoro degli uomini». Poche scuse, urge darsi da fare.
Già nel III secolo a.C., il pensatore cinese Han Fei-tzŭ scriveva, non a caso nel Libro dei cinque vermi, che l’uomo è corrotto a causa di “dieci grandi mali” dentro di lui. Putredine e immoralità, prima ancora che il peccato originale, ricordano la disputa fra Sallustio e Cicerone: Catilina era il simbolo di una società corrotta o la mela marcia in un cesto sano? Per non darla vinta ai facili giudizi, occorre fare il solletico a qualche interpretazione assopita. Ad esempio, va detto che a volte è proprio il cibo marcio a conservare gli alimenti (tanto per alienarci l’interesse dei lettori in vista della nuova rubrica online sul cibo). Assaggiate, tanto per fare un tentativo, la prugna umeboshi, famoso companatico della cucina nipponica: è immangiabile!, e non dite che non è vero. Ma nell’onigiri (equivalente giapponese del panino sotto forma di palla di riso) il riso che circonda la prugna rimane edibile, è grazie al fatto che è lei ad acchiappare tutti i batteri. Stesso discorso per il kimchi – un piatto coreano di verdure fermentate, rimpinzato di spezie – o per il tofu cinese. E cos’è il miso, in Giappone? Per quanto si utilizzino ben tre titoli onorifici nel chiamarlo omiotsuke, (come ricorda nientemeno che Kawabata), ebbene si tratta di… soia andata a male! Ci sarà pur un motivo se, in italiano, il prefisso miso- indica solo parole brutte. In Giappone si rilancia così l’ideale estetico del sabi (寂), dal verbo sabiru = “arrugginire”, cioè l’apprezzare tutto ciò che sa mostrarsi caduco, asimmetrico, imperfetto, corrotto e chi più ne ha…
Sembra, allora, di poter dare una stoccata all’incontinenza culturale confuciana: quella di emendare il più possibile ogni guasto, ideale di cui l’esagramma risente. Peccato che ci abbia già pensato il geniale Hiraga Gennai, scrittore satirico giapponese del XVIII secolo: «Il miso che puzza di miso e l’intellettuale che puzza di cultura sono due cose insopportabili». Alle loro grandi arie, risponde con un’“aria sulla quarta corda” (la corda di basso, in questo caso) definendo i confuciani heppiri jusha, cioè «puzzoni petomani». Leggersi il suo capolavoro Hōhiron (lett. Sui peti, 1774) per credere. Qui, il divino vento creatore diventa una flatulenza – non che la rùah biblica (רוח) facesse un suono dissimile – e dunque la sostanza cosmogonica non va cercata né nell’eccessiva trascendenza, né tantomeno nel tutto putrido (vedi il fango da cui Adamo nasce e prende nome), ma in ingredienti commestibili, per quanto un po’ avariati. Pensiamo al Vedismo e al mito fondativo del “frullamento dell’oceano di latte”, in cui le divinità ricavano doni da questo bianco mare con un bell’effetto minipimer che fa degenerare il latte in burro, creando fra l’altro la celestiale bevanda dell’amṛta. Le assomiglia molto il soma di cui parlano i Ṛg-veda, il succo dell’immortalità, e anch’essa proviene, secondo leggenda, dall’avanzata fermentazione di alcune piante.
L’idea di Huxley di recuperarne il nome per il suo sarcasmo distopico ci porta alle conclusioni. Il simbolo della droga moderna, capace di regalare energia e felicità, si rivela un’ipocrisia, una mancanza di coraggio o, come dice lui, «un’escursione nel fantasmagorico Oriente». Nel nostro cammino verso est, con sottobraccio il “breviario” dell’I Ching, non possiamo ora che riconoscere l’ambiguità dell’esagramma di sviluppo: Il seguire, il numero 17.
È vero, infatti, che descrive l’atto di chi si accoda a qualcun altro ed è in grado di adattarsi, ma fra abitudine e assuefazione, acquiescenza e dipendenza, per riepilogare alcune virtù del tossicomane, non corre molta strada. Di strada, invece, ne fa chi in effetti si mette in movimento per seguire un modello. Il carattere dell’esagramma è, dice l’I Ching: «Il moto». Non bisogna dimenticare che dal nostro lancio di monete erano assenti le linee mobili, il che non regala all’esagramma, come può sembrare, una forza statuaria, poiché nel Libro dei Mutamenti, come ovvio, ogni stasi è un vizio. Per ricavare l’esagramma di sviluppo, occorre rivoltare dunque ogni linea nel proprio contrario (yin in yang e viceversa). Tutto è fragile.
Questo ci insegna due cose. Punto primo, che anche noi dobbiamo rimettere mano a molte cose. L’I Ching dice di «eliminare lo stagnamento scuotendo l’opinione pubblica». Non siamo certo degli strilloni, però l’inaugurazione della Rete di Giornalismo Informale, di cui La Tigre di Carta è co-fondatrice – che riunisce diverse testate indipendenti e dà forma alla rivista collettiva dell’Elzeviro – ha causato al Vicedirettore del Corriere della Sera, Daniele Manca, l’assenza dal proprio ufficio per circa tre ore: doveva vedersela con un banda di giovani scrittori entusiasti e combattivi. Si veda poi l’articolo a proposito della nostra rivista che, nella pigra siesta di agosto, balza fuori dal Corriere della Sera Online: forse l’opinione pubblica non l’avrà scossa, ma i membri del nostro gruppo dalle rispettive scrivanie (più simili a lettini da spiaggia forse) di certo sì.
Nella sorpresa per qualcosa d’inaspettato, però, nasce la seconda scoperta: fugare la passività. L’assenza di linee mobili rende l’esagramma di sviluppo più l’opposto del precedente, che suo naturale sviluppo, in fondo. L’I Ching invita, con buona probabilità, a non fidarsi del Seguire e a non andare al traino altrui per cieca obbedienza, senza iniziativa. Ma giusto e sbagliato si scambiano il belletto e non è facile distinguerli. L’atto di marciare, per mettersi in moto, assomiglia al marcire per troppa incapacità di scelta concessa al soldato. Per fortuna, la comune radice mar- ha sia un significato passivo (donde il mor- della mors latina) che uno attivo, per l’idea del “battere” e dello “schiacciare” in modo energico, in cui Scheler vedeva il pestar di piedi per terra durante la marcia.
Ecco fatto, missione compiuta… siamo tornati al vino! L’abbiamo preso così alle spalle, quando ancora è neonato. Nell’immagine del mosto, infatti, c’è tutto: dalla violenta danza del pigiare alla magia di rubare a una melma in fermentazione un elisir. Morale della storia: per emendare le cose guaste non mettiamo mano a una bella purga (anche perché la tentazione del medico ritorna spesso nello statista). Facciamo come per la fermentazione della muffa, di cui si fanno saccarificare gli enzimi: caviamone fuori dello zucchero!
Quel che seguirà (a proposito di Seguire), chissà. In Oriente intanto ne è nato il sake!
Per le calligrafie dei due esagrammi ringraziamo il maestro Bruno Riva e il sostegno dell’associazione shodo.it