L’accrescimento

di Federico Filippo Fagotto

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L’esagramma di questo mese, il numero 42, si intitola: L’accrescimento, e descrive quei tentativi di migliorare in vista della riuscita in una grande impresa.

calligrafia ex 42

Mentre andate a riprendere la vostra fedele versione dell’I King per verificare voi stessi – dal comodino o, tutt’al più, riposta in bagno a latere del “pensatoio” – sventiamo frattanto il rischio di una noiosa scoperta: non si tratta dello stesso argomento precedente (La potenza del grande), sottoforma di minestra riscaldata! Durante la presentazione in libreria, nella quale l’esagramma è stato estratto, l’espressione di alcuni volti sembrava in effetti tradire proprio questo timore. È pur vero che: la protensione verso un obiettivo, lo sforzo di nobilitare se stessi e i rischi annessi e connessi sono comuni ad entrambi gli argomenti, va bene. Ci sono tuttavia due grandi differenze.
Punto uno. La potenza del grande ci parla di un’azione repentina, uno slancio d’impeto con cui il suddetto “grande” riesce nei propri intenti grazie alla sopraddetta “potenza”. Nell’Accrescimento non è così. Le «grandi gesta» menzionate dall’I King sono qui uno sforzo progressivo, se fossimo in Germania si farebbe a gara nel dire per primi la parola Streben, ma poiché vogliamo stare in Oriente, l’esempio migliore lo regala, forse, il pensiero Zen. A suo tempo – già nella culla cinese – esso fu dilaniato dalle scuole che facevano capo ai due carismatici allievi di Hóngre˘n, il Quinto Patriarca. Uno era il buon Jinshū, che ripeteva allo sfinimento quanto lo spirito fosse come uno specchio, di cui bisogna faticosamente pulire la superficie dalla polvere per restituirle la propria lucentezza. Dopo averle provate tutte per spiegare questa sua teoria dell’«acquisizione graduale» – mettendola anche in versi secondo l’uso delle poesie gāthā – arrivò, fresco fresco, il monaco Huìnéng (meglio noto come Enō) a dire: «Non esiste nulla dove potrebbe posarsi la polvere», poiché lo specchio non esiste! Il tutto verseggiato per giunta in modo più gradevole, come dire: ‘ciapa su e porta a cà!’… La vittoria per la trasmissione del Dharma da parte del maestro non gliela tolse ormai più nessuno. Da allora, la lotta fra le Scuole Settentrionali rimaste fedeli a Jinshū e quelle Meridionali che preferirono la versione dell’«acquisizione immediata» divenne feroce, protratta sino alle evoluzioni giapponesi del pensiero Zen, nel distinguo fra il ramo della tradizione Rinzai – che perseguì il tongo (頓悟), cioè l’illuminazione repentina – e quello della scuola Sōtō, che sposò invece il zengo (漸悟), ossia l’illuminazione graduale.
In secondo luogo, il tema dell’Accrescimento aggiunge un ingrediente decisivo, testualmente: «Il fatto che si è esenti da egoismo». Non più, cioè, un atto eroico e individualista com’era nell’esagramma a noi precedente, bensì un movimento collettivo reso consapevole dal fatto che «il vero dominare è servire», capace di invogliare un «sacrificio del superiore» a vantaggio di un «accrescimento all’inferiore», a tal punto che:

«L’idea fondamentale del ‘Libro dei Mutamenti’ si palesa in questa concezione».

Insomma: qui non si scherza. Lo abbiamo capito anche al momento di verificare qual è l’esagramma di sviluppo che descrive il concetto verso cui la situazione evolve. In questo caso, cioè, l’esagramma dal titolo: Dopo il compimento.

calligrafia ex 63

Qui, non solo si nutre la speranza che effettivamente l’azione ambiziosa giunga a buon fine, ma si viene colti dal gioco affascinante con cui l’I King pone l’esagramma conclusivo in penultima posizione (anziché ultima), la numero 63, alludendo così al fatto che tale conclusione non è mai davvero definitiva. Tutto ciò concede di tornare sul suolo del Buddhismo. È vero, infatti, che il divario fra l’individualismo della Potenza del grande e il valore collettivo qui descritto è tipico delle due anime cinesi: il Taoismo da una parte e il Confucianesimo dall’altra, ma nel Buddhismo tale contrasto si riverbera nella differenza fra la corrente Hīnayāna e quella Mahāyāna. Per non arrivare a concetti che alle orecchie degli orientalisti sono venute a uggia, mentre allo stomaco dei profani rischiano di essere più pesanti di una peperonata, basta ricordare il motto di un dotto indiano, Atiśa per l’esattezza, che nell’XI secolo scrisse il Bodhipathapradīpa [illuminazione immediata per chi riesce a dirlo tutto di fila]. Secondo lui, chi compie i riti mosso da desideri mondani ottiene il sam·sāra (l’equivalente qui di un fico secco), chi lo fa per la propria salvezza ottiene il nirvān·a, chi invece lo fa con l’intenzione di salvare anche tutti gli altri esseri, oltre che se stesso, ottiene il “nirvana non-dimorante”, cioè lo stato di beatitudine che però resta nell’aldiqua, per così dire, onde ultimare la propria missione compassionevole. Il secondo atteggiamento è quello Hīnayāna, mentre quest’ultimo distingue l’approccio Mahāyāna, dove notiamo un Compimento che resta sempre un gradino indietro, come nell’I King, per permettere a tutti di farcela.
Il saggio Atiśa fu prezioso nel diffondere questi ideali in Tibet e Nepal e… a proposito: purtroppo (o per fortuna) quando il quarto numero della rivista uscirà, per noi occidentali il ricordo del terremoto avvenuto da quelle parti sarà ormai livido, ma nel presente di chi scrive è assai recente. Lo si prenda come esempio dell’Accrescimento, per via della forza spirituale delle genti himalayane nel reagire alla sciagura naturale. Un vero «spirito che solo è in grado di aiutare il mondo», come nelle parole dell’I King, che qui stanno a pennello. In mezzo al chiasso e alla calca diffusa fra gli spazi dell’Expo (questi sì ci saranno ancora nel presente dei lettori), colpisce allora il padiglione nepalese: è quasi vuoto! Il personale è tornato subito dalle rispettive famiglie in seguito all’accaduto, ad eccezione di alcuni intagliatori rimasti fieramente a scolpire il legno davanti ad un’invadente folla di curiosi.

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In una stampa d’epoca, Visnu esegue i tre passi con cui riconquista l’universo

I passi da compiere per riprendere il cammino dopo il disastro sono faticosi, ma nepalesi e tibetani sono popoli montani abituati a grandi scalate, per quanto graduali e fatte di passi piccoli quanto quelli di un nano. Dopo appena tre passi, c’era chi vedeva già il mondo crollare – anche se in quel caso non erano le scosse del terremoto, ma i colpi (beat) di rock della Beat Generation. Fu proprio con tre passi, invece, che Vis·n·u riconquistò il mondo dopo che Bali, sovrano degli spiriti Asura, lo aveva espropriato a dèi e mortali. Si presentò a lui in forma di nano chiedendogli tanto terreno quanto avrebbe potuto coprirne con tre falcate. Bali, poco intimorito, assentì e allora Vis·n·u, con un Accrescimento degno dei migliori steroidi, si trasformò tosto in un gigante. Compiuto il terzo passo, l’intera superficie terrestre fu coperta, in barba al povero Bali.
Pensiamo sempre in positivo, dunque. Se non ci riusciamo aiutiamoci con le parole dell’I King:

«Persino degli avvenimenti sciagurati devono servire per il bene di coloro che ne sono colpiti».

Per le calligrafie ringraziamo il maestro Bruno Riva e il sostegno dell’associazione shodo.it

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!

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