Devo dire che lo stupore più intenso è stato leggere che l’esagramma di questo numero «è coordinato al secondo mese (marzo-aprile)»[1], proprio il periodo che, a partire dalla consulta dell’I King, ha abbracciato il nostro ultimo lavoro di scrittura e pubblicazione.
Per il resto, le altre incoraggianti coincidenze legate all’esagramma 34, intitolato La potenza del grande, che mostra «un tempo in cui il valore interiore si alza potentemente e giunge al dominio», vanno prese con cautela.
Di certo, nel corso della serata di presentazione in cui questo bel tema ha fatto capolino, ha ingolosito molti il desiderio di paragonarlo alle fatiche, per ora premiate, della nostra neonata rivista. Ma più che al «nobile» descritto dall’I King, c’è maggiore somiglianza, al momento, con un essere più potente nell’emettere vagiti che nello smettere di gattonare.
D’altronde, cosa c’è di più semplice che estorcere alle culture dell’Asia l’immagine di un’aurea figura semi-divina come quella di un essere nobile grande e potente? Nessun gran vanto quindi. Dall’insalata di Scià, Pascià e Sultani del Medio Oriente, si può passare per Mahārāja, Gran Mogol e Kahn, arrivando esausti al Tianxia cinese e al Tennō giapponese. L’ammirazione di Alessandro Magno era forse ben riposta. Quello che voglio dire è che sembra facile leccarsi le labbra con un complimento di cui si è stati imboccati da un responso oracolare, dietro il quale, per chi vuol vederla così, sembra nascondersi un progetto del destino. Non che questo diminuisca di un’oncia l’ammirazione da tributare, ad esempio, all’imperatore cinese Omo che, alle soglie del suo assassinio (23 d.C.), rimase impassibile con lo scettro di Giada in mano a contemplare le stelle, mormorando: «Se è la volontà del Cielo, morirò; altrimenti nulla potrà uccidermi». Ma, ahimè, non finì tanto bene.
E proprio qui siamo invitati a non essere precipitosi. Sarà un caso se le uniche due linee mobili dell’esagramma sono la prima e l’ultima? Di certo si può sperare in un percorso che dalle stalle salga sino a quelle stelle contemplate anche da Omo. L’esempio più bello capitò in Giappone, con la storia del contadino Hamaguchi, che pur di avvertire il villaggio dell’arrivo di uno tsunami, diede fuoco a tutto il suo raccolto per richiamare col fumo l’attenzione dei compaesani. Per ricompensarlo, le sue genti lo adorarono come un dio, col nome di Daimyōjin (“uomo dal grande nome”), mentre lui era ancora in vita. Tuttavia, dice l’I King, occhio al movimento contrario: al «pericolo che ci si fidi della propria potenza senza chiedersi ogni volta se quanto si fa sia giusto». A ben guardare, anche gli elementi naturali dei singoli trigrammi sono scombussolati: il Cielo (☰ = Kkienn) sta in basso, il Tuono (☳ = Cenn), che di solito discende, rimane assiso lassù.
La potenza del grande rischia allora di degenerare in «mera violenza», gettando quell’ombra non certo infrequente quando si pensa ai vertici di un grande Stato come la Cina. Lo dico perché una famosa scrittrice cinese, Jung Chang, ha di recente pubblicato una biografia sull’Imperatrice Cixi,
che fu reggente a periodi alterni per tutta la seconda metà dell’Ottocento, e fu capace di riunificare il regno. Come vi riuscì? Beh, Jung Chang riesce a dire, a distanza di poche righe, ch’ella «attuò la trasformazione della Cina senza impiegare la violenza», ma anche che «fu un gigante, non una santa» e pertanto «fu capace di atti d’immensa crudeltà». Insomma, qualcosa puzza quando ci si trova in posizioni di eccessivo potere. Un passo falso su di un gradino traballante, o su una linea “spezzata” (come la sesta in alto), e si riprecipita a terra.
Ironia di quella stessa sorte chiamata in causa: proprio il successore di Cixi, l’imperatore Pu Yi, visse questo crollo quando il 5 novembre 1924 fu spodestato dall’Esercito Nazionale di Feng Yu-hsiang. Dopo di lui, la Cina smise di essere un Impero. Nelle sue memorie, intitolate Sono stato Imperatore, fa bene allora a paragonarsi a Luigi XVI perché, come lui – ammette egli stesso – continuò fino all’ultimo a comportarsi da «essere superiore» senza riconoscere alcuna colpa. Per sua sfortuna, proprio quella via crucis che lo fece rovinare in basso, era dal basso che sorse, dal popolo, ma lui, chiuso nella gabbia della Città Proibita, non la vide. Solo più tardi, sporcatosi col mondo, non poté che ammettere:
Quello di cui non tenevo conto nei miei calcoli era la gente comune. E sebbene innumerevoli fatti avrebbero dovuto aprirmi gli occhi, non riuscii a capire chi era veramente forte e chi debole.
Il problema della Potenza del grande è identico! Non tanto il timore della sua presenza, quanto la sua assegnazione, il suo ruolo. Per non trovarsi a dire, come il povero Pu Yi: «La mia vita non durerà più a lungo del vapore che appanna i vetri». Ma proprio quest’immagine poetica – qualcosa avrà pur ispirato quell’esteta di Bertolucci nel girare L’ultimo imperatore in fondo – concede una speranza all’arte e alla cultura, di cui la nostra rivista non è che una singola goccia.
L’esagramma di sviluppo, dal titolo Il crogiuolo, fra le tante cose parla della forza e del contributo delle imprese culturali, dando forse un esito felice all’incontrollata potenza da cui si è partiti.
Ma anche qui, il fatto che l’I King parli della «soprastruttura culturale della società» non può non ricordare, dall’alto della storia, certi ambigui tentativi culturali un po’ troppo “potenti” in cui l’ideale della sovrastruttura si è calato, per non dire “calcato”, parecchio nella parte, quasi a voler imitare il nostro esagramma nello scendere brutalmente dalla sesta alla prima linea con la forza di una ghigliottina, la stessa cui andò incontro Luigi XVI. Ancora Pu Yi, sempre nel suo simpatico diario, paragonava la commistione fra soldati e popolazione, propria delle fila del nuovo partito che di lì a qualche decennio avrebbe svolto la Rivoluzione Culturale, ad un vecchio detto cinese:
Occhi di pesce mescolati a perle…
Cultura sì, allora, e potenza anche, ci mancherebbe altro. Ma con una certa consapevolezza. Ad una sua esasperata e violenta imposizione, si può forse preferire la potenza di chi di libri non ne ha letti nemmeno uno per sbaglio, e cionondimeno sa il fatto suo. Il grande Akbar, che regnò in India sul finire del XVI secolo, passava per illetterato, eppure diede corpo e spirito ad un impero che spennellava il continente dall’Afghanistan al Bengala, passando per il Kashmir e il Deccan. Ed infine, guarda un po’, sotto di lui rifiorirono anche le arti. Fece guerre e morti, ovvio, ma viene tutt’oggi ricordato con il titolo di šāhanšāh (شاهنشاه), ossia “Re dei Re”. Più potente di così…
Chiudiamo con le parole dell’I King che descrivono la sorte dell’ultima linea in alto, quella verso la quale vorremmo fluisse questa grande potenza di cui abbiamo smascherato i temuti inghippi, ed una volta fatto, alziamo lo sguardo dalla pagina e guardiamoci davanti. Di strada ce n’è ancora molta:
Un capro urta contro una siepe.
Non può andare indietro. Non può andare avanti.
Per fortuna siamo nell’anno della Capra. Possiamo goderci il presente.
[1][1] Secondo il calendario lunisolare cinese.
Per le calligrafie ringraziamo il maestro Bruno Riva e il sostegno dell’associazione shodo.it