Amica, madre, sorella e non solo questo…

di Victor Attilio Campagna

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Il dramma di una donna emendato attraverso il processo psicoanalitico: a differenza di scrittori come Joyce e la Woolf, a Goliarda Sapienza non importa davvero la psicoanalisi in letteratura, quanto la letteratura nell’universo clinico, grazie alla forza che un romanzo può conferire alla coscienza.

La psicoanalisi è nata di recente e ha avuto un influsso radicale su ogni ambito della cultura contemporanea; fra tutte le forme del sapere, la letteratura ne ha molto risentito. Infatti si è da subito instaurato un confronto più o meno diretto tra queste due discipline, che ha portato a delle forti riconsiderazioni sul fare letteratura. Esemplari sono i romanzi della Woolf, di Joyce, Pirandello, Svevo e così via.

Goliarda Sapienza

Una giovane Goliarda Sapienza

Venendo al nostro tema, la psicoterapia può essere considerata un Emendamento delle cose guaste, soprattutto se si guarda a certa letteratura il cui tema è proprio la psicoanalisi. Il filo di mezzogiorno[1], di Goliarda Sapienza, ne è un esempio, autobiografico per giunta.

Catanese di nascita, Goliarda Sapienza crebbe in una famiglia progressista, con una madre femminista, estremamente ferma nell’imporre alla giovane Goliarda, sin da piccola, le proprie convinzioni. Fu per breve tempo attrice, lavorando nel cinema, oltre che a teatro, spesso nei panni di protagoniste pirandelliane, per poi rendersi conto della sua vocazione letteraria. Si legò sentimentalmente a Citto Maselli, con cui intrattenne una lunga relazione, per poi sposare lo scrittore Angelo Pellegrino. La sua prima prova letteraria fu Lettera aperta, seguito poi da Il filo di mezzogiorno, che racconta la sua terapia con lo psichiatra Ignazio Majore.

In questo romanzo, estremamente sperimentale, si traccia con cura e attenzione il ritratto autobiografico di un periodo per lei estremamente buio: fu ricoverata in un ospedale psichiatrico dopo un apparente tentativo di suicidio. In realtà, come ebbe a dire più volte Goliarda, non fu affatto un suicidio, non voleva morire: voleva dormire.

«Certo, signora. E poi non è stato un vero e proprio suicidio: ha preso delle pasticche per dormire. […] Era stanca, piangeva e così quei signori che credono nell’elettricità hanno ritenuto opportuno farle dimenticare tutto per un po’» (p. 52).

A parlare è il dottore, che riconferma come Goliarda sia stata danneggiata più dall’elettroshock, pratica allora estremamente usata in caso di ricovero psichiatrico, che da una follia pregressa. Infatti soffriva solo di insonnia, insonnia che le provocò un attacco nervoso, molto probabilmente, e che le fece perdere ogni lucidità. In questo Majore, il medico, ha una visione quasi illuminata per l’epoca, perché capisce che esistono alternative, risiedenti nella parola, che possono curare un malato di nervi. L’obiettivo di questo libro – oltre che del medico – è quindi un recupero: Goliarda in queste pagine descrive il ritorno di una memoria che all’inizio è confusa, persa, inconsistente. Lo si nota sin dalle prime pagine, molto confuse, in cui il tempo stesso non ha nome, tende a rarefarsi, a disfarsi, scomparire.

Spesso il medico la rassicura dicendole che la aiuterà a ricordare: «Cerchi di ricordare: sono qui per aiutarla» (p. 43); «capisco la sua gioia, ma proprio questo mi conferma che lei ha dei problemi e se lei vorrà io la potrò aiutare» (p. 53). In questo processo c’è un’analisi doppia: sia l’analista che Goliarda si trovano di fronte a una sorta di giudizio reciproco, in cui, sullo sfondo, si denota come anche il dottor Majore fosse umano, nevrotico per giunta, e avesse dei problemi evidenti nel rapporto con sua moglie.

In questo contesto Goliarda vaga tra inconscio, memoria, ricordo, tempo e si vede bene come nel romanzo ci sia una sorta di interdigitazione temporale, per cui il presente si fonde con il passato, il passato con il presente, creando un gioco di echi molto efficace nel rendere conto di uno stato, la follia, spesso complesso da esporre. Il filo del mezzogiorno è dunque un vero e proprio percorso conoscitivo, in cui l’autrice esplica non solo se stessa come paziente, ma una modalità esistenziale, di cui è necessario un emendamento. Tant’è che lei stessa ha una paura estrema di impazzire come sua madre, che morì delirando in una casa di cura. All’inizio crede addirittura che sia ancora viva.

«La mamma è a fare la spesa, vero? / Sì, signora. / E perché non torna? / Verrà presto, si rassicuri. Mi dica, piuttosto, lei andava all’Accademia[2] e sua madre faceva la spesa, e cucinava anche?» (p. 27).

In questo breve dialogo emerge un’atmosfera incerta, dove non c’è una vera idea di tempo e spazio. Più volte Goliarda pensa che passino settimane, giorni e giorni, dall’ultima venuta del dottore, quando invece è passato appena un giorno o viceversa.

«Bene, bene. Vedo che comincia a ricordarsi delle nostre conversazioni, e di quello che le dico. Bene».

«Certo che mi ricordo. È stato ieri che mi ha detto della sua professione».

«No, signora, non ieri: tre mesi fa».

«Tre mesi fa? E lei, è venuto spesso in questi tre mesi?».

«Tutti i giorni, meno il sabato e la domenica».

«Ma io… mi ricordo solo di due, tre volte. E perché tutti i giorni?». (p. 32)

Nel romanzo si passa da una tensione negativa verso il dottore, un vero e proprio rifiuto (lo chiama fascista, addirittura lo schiaffeggia) a un vero e proprio transfert, in cui si innamora di lui e glielo dice:

«Perché secondo lei viviamo secondo natura? Io le voglio bene così e sentendo che lei mi vuole bene perché dovrei uccidere gli altri? Averla tutta per me? Mi scusi, ma proprio questo atteggiamento possessivo che lei mi vuol far passare per genuino, sano, mi pare malato ed immorale. E poi le parole genuino, naturale, non mi piacciono, io amo così e sentendo che anche lei mi ama… che dicevo? Non avevo mai pronunciata quella parola ad un uomo ed avevo detto anche: “Sentendo che lei mi ama”… che avevo detto? […] “Sì, l’amo…”, adesso sicuramente avrebbe protestato, non osavo aprire gli occhi ma con le mani mi costrinse a guardarlo e ridissi quella parola una due tre… quante volte?» (p. 150).

In questo romanzo emerge un tracciato estremamente dettagliato del processo psicoanalitico, incluso anche il transfert. Quel che interessa in questa sede però non sono i particolari clinici, bensì la valenza letteraria di un romanzo che dà un’idea profonda del significato della psicoanalisi, compresi i suoi limiti. Lo stesso psichiatra, alla fine del libro, sconvolto dalla notizia di un suo collega scellerato che usava andare a letto con le sue pazienti, giustificando la cosa come una sorta di terapia, lascia intravedere la debolezza di una disciplina al limite tra scienza e materia umanistica, disciplina che denuda paziente e medico nelle loro parti più intime e fragili. Questa scelta di riportare a romanzo la sua esperienza non è solo una mera autobiografia, bensì una testimonianza. Non sono tanti gli esempi di scritti autobiografici di questo tipo elaborati da grandi narratori, forse perché risulta difficoltoso esporre appieno la propria realtà individuale senza pagare le conseguenze di una vergogna che affonda le proprie radici nel nostro super-io (per rimanere in tema). Per questo Il filo di mezzogiorno è un vero e proprio filo, appunto, teso tra lettore e coscienza dell’autore, un filo diretto col proprio fragile io interiore.

Il nostro può essere considerato un secolo in cui il bisogno di psicoanalisi diventerà sempre più incombente, perché nello sfilacciamento delle identità, proprio di una società di massa, risiede il rischio maggiore per chi ha una determinata sensibilità, soprattutto vista la liquidità dei concetti, nonché la difficoltà nel reperire punti di riferimento, perché ormai moltiplicanti e moltiplicatisi, fattori che riducono l’individuo a essere sempre più inconsistente all’apparenza, a meno che non contestualizzato nella massa. L’emendamento delle cose guaste è anche e soprattutto un percorso verso una correzione interiore, il cui proposito non sia tanto l’abusato accettarsi. Goliarda non ha avviato un percorso per essere migliore, tanto meno per accettare la sua identità: l’ha iniziato per recuperare una memoria, fondamentale per costruire le basi di un’identità personale e collettiva – non sono casuali i numerosi accenni che fa alla Seconda Guerra Mondale, agli orrori che dovette subire, alla lotta che sostenne insieme a tanti uomini e donne, così come alle sue origini, al biunnu, ai colori, al loro nome e a chi glieli insegnava. Bellissime sono le pagine conclusive, in cui emerge un temporale che netta non solo il mondo, ma anche Goliarda stessa.

Non dovevo cadere… ricrescerà la mia carne?… in quella sera di pioggia lontana e presente… finalmente un temporale! Temporale d’autunno, di luci calde filtrare dai rami dorati, e le foglie brune negli occhi di Giovanna Jane [l’infermiera che scelse lo psichiatra a cura ultimata]… dietro a quegli occhi che mi porgevano un liquido caldo e profumato che scioglieva le mie labbra intravidi altri occhi, altri visi di amici sempre nuovi e sempre conosciuti, sconosciuti e conosciuti, da sempre insospettati e noti da sempre… sempre nuovi e sempre saputi… […] Cominciai questa mia lettera perché mi aiutaste a riimparare ad essere amica, madre, sorella e non solo questo, ma anche, per rientrare in possesso del diritto alla mia morte che quell’uomo nella sua autorità di grande medico mi ha tolta (p. 184).

Una lettera per accettare il suo ruolo di donna nel mondo, «riimparare» a essere, conscia che la letteratura, sia che si sia scrittori, sia lettori, è forma di emendamento del sé, forma di accettazione anche della possibilità di morire. Quel che conta è emendarsi dalla follia, ossia da quello stato di perdimento in cui si è scordato come essere umani e ci si è distaccati dal reale: infatti è qui il nucleo, nello riscoprirsi «amica, madre, sorella e non solo questo», ossia umana.

[1] Ed. Baldini & Castoldi, Milano, 2015.

[2] Goliarda, a 16 anni, si iscrisse all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica di Roma.

Autore

  • Tre anni di Lettere Antiche, ora a Medicina e Chirurgia. Per non perdere l'identità si rifugia nella letteratura, da cui esce solo per scrivere qualcosa. Può suonare strano, ma «Un medico non può essere tale senza aver letto Dostoevskij» (Rugarli).

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