C’è del marcio in piano trio

di John De Martino

///

Due modi di intendere il marcio in musica: come ristagno e persecuzione uditiva che, come mostra Oliver Sacks, per colpa del consumismo portano a forme psicotiche, oppure come dannazione dell’artista, che può portare, come nel caso di Bill Evans, alla nascita di figure di genio.

Il ristagno è la conseguenza della libertà umana. Il ristagno, tramite la decomposizione, coglie l’individuo nell’accidia, lo mostra al mondo, denudandolo, esponendolo fino alla gogna: tutti sapranno che sei fermo, inattivo e pigro. Si sente odore di muffa, le idee rischiano di decomporsi. Nella fervida immaginazione dell’I Ching, ci viene mostrata una ciotola, contenente dei vermi. Siamo sottoposti a un’argomentazione insolita, che ci porta a pensare a un momento di difficoltà, una mancata dinamicità che rende farraginoso il reale progetto ambiziosamente costruito. Propizio, dice il libro, è mettersi in moto con il lavoro, il rischio che porta al pericolo.

Immagine musica 1Oliver Sacks, celebre neurologo e scrittore britannico da poco scomparso, è sempre stato un appassionato di musica. Nel suo libro Musicofilia, tra le mille interessanti argomentazioni esposte ci parla di particolari casi di persone che, per eventi di varia natura, spesso apparentemente senza motivo, si ritrovano in possesso di un amore incondizionato per la musica, che, da un momento ben preciso della loro vita, si tramuta in un bisogno viscerale di suonare e produrre note che circolano vorticosamente nella loro testa. Associati a questi eventi, lo scrittore ci racconta di tanti ulteriori elementi di carattere neurologico che invadono la nostra mente in relazione alla potenza incalcolabile che la musica può avere sull’essere umano.

In uno dei capitoli del libro, infatti, l’autore ci parla dei «tarli»: cellule melodiche, piccole melodie da noi conosciute ed estremamente orecchiabili che attraversano il nostro cervello e rimangono fortemente impresse, tanto quasi da “costringerci” a canticchiarle ripetutamente anche per lunghi periodi di tempo, fino ad arrivare, in casi estremi, a rendere tutto ciò un fattore psicotico disturbante. Sacks li chiama anche Earworms, o Brainworms, vermi del cervello; nel 1987 una rivista li definì «agenti musicali cognitivamente infettivi». Tali vermi si innestano nella nostra mente, portandoci a una forma di disturbo incontrollato che dà modo di riflettere sulla notevole incisività della musica nel nostro quotidiano.

L’autore cita Mark Twain, che nel 1876 scrive un racconto, A Literary Nightmare (successivamente re-intitolato Punch, Brothers, Punch!) in cui il narratore viene messo fuori combattimento dall’esposizione ad alcune “rime orecchiabili”:

Presero possesso di me, in modo completo ed istantaneo. Per tutta la colazione continuarono a volteggiarmi nel cervello … Lottai con tutte le mie forze per un’ora, ma fu inutile. La mia testa continuava a canticchiare … Andai in centro, come spinto alla deriva, e immediatamente scoprii che i miei piedi tenevano il ritmo di quei versi inesorabili … Continuai a ripeterli per tutta la sera; poi andai a letto e non feci che rigirarmi, dimenarmi e canticchiare tutto il tempo.

Immagine musica 2Uno dei principali fattori che portano a tarli del genere è portato dalla mercificazione consumistica della musica, che porta alla composizione di brani semplici, orecchiabili, poco interessanti bensì volti a creare esattamente questo tipo di alienazione. Mi permetto un tale termine quasi “marxiano” (da non confondere con marxista), per rendere esattamente l’idea di un flusso denso e copioso di materiale che, in un certo senso, “invade” gli spazi che l’uomo potrebbe dedicare a se stesso o a un’attività formativa: nello stesso senso agisce il continuo ripetersi di medesime azioni del lavoratore in fabbrica, alienato e imploso nel suo piccolo grande impiego.

Detto ciò, è bene sottolineare un valore che, quanto meno secondo me, non deve mai essere messo in secondo piano quando si parla di musica: le idee associate alla personalità individuale. Con questo intendo caratterizzare un concetto che nella società musicale contemporanea trova pochi sbocchi, cioè lo sviluppo di una propria identità. In un mondo in cui la musica suonata, classica e moderna, di oggi è stata resa estremamente accademica e volta allo studio di infinite forme precostituite da copiare e semplicemente eseguire, il marcio inizia a prendere piede. Nel momento in cui un amante della musica si dà al cento per cento alla ricerca, studio, pratica di questa materia, si ritrova, dopo un lasso di tempo variabile a seconda del soggetto, all’interno di un continuo processo di immagazzinamento di materiali esistenti. Qui, di conseguenza, prende forma Il seguire, inteso come un appoggiarsi, fra abitudine e assuefazione, acquiescenza e debolezza: appollaiarsi su schemi che definiscono concetti già ampiamente praticati da coloro che sono già stati, a loro modo, musicisti. Immagine musica 3L’esecuzione al giorno d’oggi ha raggiunto un tale livello tecnico (non solo in musica), che spesso, per molti anni, è il particolare a riempire le giornate di studio di un giovane dedito alla materia, lasciando da parte ciò che potrebbe, forse, dare un senso agli sforzi, alle grandi ambizioni e speranze che lo hanno portato a iniziare tutto il percorso. Quando una vita viene impiegata esclusivamente al lato “onanistico” del mestiere (mi si perdoni il termine), in una forma d’arte qualcosa manca. Deve essere integrato da un colore, una anche minima linea di pensiero, quantomeno da un tentativo di ricerca su ciò che rappresenta il più grande privilegio del fare arte: la possibilità di creare dal niente.

Se a tutto questo aggiungiamo il fattore precedentemente esposto, cioè una certa configurazione capitalistica che la musica sta incrementando negli ultimi decenni, arriviamo a comprendere un crescente quanto lecito pessimismo negli occhi di chi naviga in queste acque. Acque che vanno navigate con continua passione, ma che rappresentano un dilemma esistenziale preminente: costruire e portare a casa un certo materiale che possa e che debba inevitabilmente identificare coloro i quali partecipano alla creazione. Musicisti di grande caratura, che nella storia della musica del Novecento hanno portato con loro grandi pagine da ricordare e mettere per iscritto verso i posteri, hanno attraversato lunghi periodi moralmente distruttivi. Mi riferisco a fasi della loro vita in cui la sofferenza e la personale decomposizione ha portato a una verace introspezione, con conseguenze legate all’autodistruzione fisica (ad esempio l’uso di droghe in grandi quantità). Questa autodistruzione, però, li ha in un certo senso illuminati. Mi riferisco ad esempi quali quello del grande pianista Bill Evans. Americano bianco del New Jersey, Bill si forma fin da piccolo studiando classica sempre con grandi risultati. La sua carriera si sposta in ambito jazzistico, sposando perfettamente quella che è sempre stata la sua indole da musicista dannato, perso nei meandri della propria mente, tanto geniale quanto distruttiva. I suoi dischi più importanti, votati a un grande interplay con la ritmica della formazione in trio, hanno mostrato al mondo della musica un esempio di rapporto sofferenza-artisticità prorompente.

Il lavoro su se stesso del musicista, il grande dolore umano che lascia spazio alle possibilità pianistiche e compositive, può essere in qualche modo quel flusso d’acqua di cui il Libro dei Mutamenti ci fa menzione: la profonda maturazione umana, la sensibilità spinta all’eccesso che in qualche modo, dopo un grande lavoro, sfocia, come un affluente, in un enorme fiume di idee, innovazioni e arte da riportare e ricordare ai posteri.

BIBLIOGRAFIA

Oliver Sacks, Musicofilia, tr. it. di I. Blum, Adelphi, Milano 2014.

Keith Shadwick, Bill Evans. Everithing Happens to Me. A Musical Biography, Backbeat Books, Milwaukee 2002.

DISCOGRAFIA

The Ivory Hunters, Bill Evans, United Artists, 1959.

Portrait in Jazz, Bill Evans, Riverside, 1959.

Sunday at the Village Vanguard, Bill Evans, Riverside, 1961

Walz for Debby, Bill Evans, Riverside, 1961.

Quintessence, Bill Evans, Fantasy, 1976.

Autore

  • Studia batteria jazz alla Civica di Milano. È un musicista nato, anche se per capirlo ha dovuto studiare per un anno filosofia. Ora vive praticamente nel suo box, dove si esercita e invita gli amici musicisti.

    Visualizza tutti gli articoli