di Aurora Vasinton
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Firenze, anni Sessanta del XVI secolo. Giorgio Vasari, pittore e architetto aretino al servizio della famiglia Medici, sta approntando le ultime modifiche alla nuova edizione dell’opera che più lo renderà famoso nei secoli a venire: la raccolta delle biografie di tutti i principali artisti di cui è riuscito a raccogliere informazioni, da Cimabue fino alla generazione a lui contemporanea. È la prima opera letteraria della storia occidentale che si occupi di un numero così elevato di artisti in modo organico e seguendo un ordine cronologico; insomma, il primo libro di “storia dell’arte” propriamente detto. È anche una delle opere che più ha forgiato ciò che ancora oggi pensiamo dei grandi archi temporali della storia: l’arte medievale come periodo di fervore religioso, caratterizzato da una produzione ripetitiva, brutta, frutto di incapacità tecnica dovuta all’imbarbarimento, che si contrappone all’arte rinascimentale, quando finalmente la capacità di rappresentare giunge a maturazione attraverso la prospettiva, e la mimesi della realtà raggiunge un livello altissimo, che ha il suo apogeo nella triade Leonardo-Raffaello-Michelangelo.
Eppure proprio dalle Vite di Vasari possiamo trarre alcuni aneddoti fondamentali per farci capire quanto la nostra idea di Rinascimento sia falsata. Ad esempio, nel raccontarci la vita e le opere del Verrocchio (maestro della generazione forse più prolifica di artisti paradigmatici dell’arte rinascimentale, fra cui Botticelli, Leonardo, Perugino, Ghirlandaio e Luca Signorelli), Vasari ci parla dell’arte di lavorare un materiale che è stato completamente obliterato dalla storia della produzione artistica: la cera.
Dopo si cominciò al tempo [di Verrocchio] a formare le teste di coloro che morivano, con poca spesa; onde si vede in ogni casa di Firenze sopra i camini, usci, finestre e cornicioni, infiniti di detti ritratti, tanto ben fatti e naturali che paiono vivi. […] si cominciò al tempo d’Andrea a fargli in molto miglior maniera, perché avendo egli stretta dimestichezza con Orsino ceraiuolo, il quale in Fiorenza aveva in quell’arte assai buon giudizio, gli incominciò a mostrare come potesse in quella farsi eccellente [1].
In così poche righe apprendiamo una serie di dati fondamentali: primo, che a Firenze esistevano i ceraiuoli, cioè gli artigiani della cera, e che essi avevano un certo riconoscimento sociale e si ponevano allo stesso livello degli artisti, scambiandosi trucchi e consigli con loro; secondo, che esisteva l’usanza di fare un calco delle teste di coloro che morivano, cioè delle maschere funerarie, e che la cera si collega strettamente a questa tradizione; terzo, che proprio in quegli anni la produzione in cera ha grandissima fioritura, tanto da far dire a Vasari che «essa si cominciò al tempo di Andrea [Verrocchio]».
In realtà, la produzione di manufatti in cera ha origini antichissime, probabilmente antecedenti al mondo classico, ma è dalla Grecia ellenistica che ci arrivano le prime notizie ed è nella Roma imperiale che questo tipo di produzione ha il suo apogeo: basti pensare alle numerose testimonianze che abbiamo di cerae (busti che ritraevano i defunti della famiglia) poste, nelle case patrizie, in vere e proprie gallerie, come biglietto da visita del proprio status sociale per chiunque entrasse (chiarissima in questo senso è la statua del “togato Barberini”); ma ancora più impressionanti sono le testimonianze dell’utilizzo che si faceva dei ritratti in cera durante i riti funebri imperiali, in cui le effigi a figura intera degli imperatori fungevano da vere e proprie sostitute del corpo (ormai cadavere e quindi occultato alla vista) dell’imperatore stesso. Dione Cassio ad esempio, parlando del corteo funebre dedicato ad Augusto, racconta che
Il suo letto sontuoso era di avorio e oro, decorato con coltri ricamate con oro e porpora. Il corpo era deposto lì in una bara, nascosto; ma si poteva vedere un’immagine in cera di lui, esposta in maniera trionfale. Questa immagine era portata dal palazzo degli ufficiali eletti per l’anno seguente […] [2].
E ancora, riguardo la cerimonia funebre di Pertinace:
Vi era un’effigie di Pertinace in cera, posta in maniera trionfale; e un giovane grazioso teneva lontane le mosche con piume di pavone, come fosse realmente una persona addormentata [3].
Ciò che più colpisce, in queste descrizioni, è il totale assorbimento da parte dell’effigie in cera delle funzioni dell’imperatore; non solo all’effigie vengono resi omaggi, ma viene protetta dagli insetti, come se si trattasse dell’imperatore in carne ed ossa.
Proprio per questa sua capacità di sostituzione del corpo non solo in funzione mimetica (la somiglianza dovuta all’iperrealismo che è proprio dei modellati in cera), ma in funzione ontologica (l’effigie è l’imperatore, anzi è ancora meglio, perché è la sua parte non mortale, è il suo aspetto migliore fissato in un momento eterno), l’effigie è stata definita una presentificazione dell’assente [4]; e questa sua caratteristica sarà evidente in tutti i secoli successivi, in quanto essa sarà centrale in tutti i riti funebri di nobili e regnanti dal XIV fino al XVIII secolo, soprattutto in Francia, Inghilterra e Germania (la galleria di cere che si trova tutt’oggi a Westminster è un ottimo esempio); ed è evidente ancora oggi nei funerali del metropolita d’oriente.
D’altronde questo nodo inscindibile fra cera e morte non è casuale: la cera è il materiale che meglio si è prestato, nei secoli, a realizzare quel desiderio che forse è stato all’origine della produzione stessa di immagini tout court: quello di esorcizzare la morte attraverso una copia del corpo che però, a differenza del cadavere, fosse incorruttibile. Ed è precisamente questo legame a rendere le sculture in cera così perturbanti ai nostri occhi: è stato ormai dimostrato [5] che ciò che ci somiglia troppo finisce per risultarci improvvisamente estraneo, anti-umano, invece che più familiare; perturbante appunto, come i cadaveri. E d’altronde non è un caso che Maurizio Cattelan abbia scelto proprio la cera per le sue creazioni più provocatorie, come i bambini impiccati alla quercia di Porta Ticinese a Milano, e come siano state proprio queste opere a creare il maggior scandalo fra il pubblico.
Trovo sia correlato sempre a questo profondo legame iperrealismo-morte anche il rifiuto che ha investito la scultura in cera a partire dal Neoclassicismo, periodo troppo scosso da una ricerca dell’ideale e del modello assoluto e puro per accettare l’uso di un materiale così spaventosamente in grado di tradurre la piccolezza dell’effimero, i difetti accidentali, i cedimenti della carne. L’onda di rifiuto è arrivata indisturbata dal Neoclassicismo ai giorni nostri, facendoci relegare la scultura in cera all’ambito dell’intrattWang Wenenimento e del fenomeno da baraccone (si veda il museo di Madame Tussauds), e non certo a quello dell’arte (nonostante fenomeni come Cattelan, o i numerosi manufatti antichi in cera, spesso di alto livello qualitativo, sparsi fra i più grandi musei del mondo).
Eppure la produzione in cera è stata fondamentale da molti millenni prima di Cristo fino a pochi secoli fa: il suo legame con la morte e la sua capacità di presentificare l’assente l’hanno resa necessaria e messa in dialogo con tutti i “generi alti” dell’arte, e oggi il suo status e le sue funzioni riescono ad essere pallidamente imitate solo dalla fotografia.
Emendamento della morte, dunque: il momento di corruzione del corpo per eccellenza. Ma emendamento della storia, anche: proprio attraverso lo studio dello sviluppo della scultura in cera possiamo renderci conto di quanto il giudizio contemporaneo influenzi la nostra capacità di giudicare epoche altre, lontane da noi. Torniamo per un attimo ai cerajuoli della Firenze del Verocchio: ci sono poche cose più lontane dalla nostra idea di Rinascimento che immaginare una produzione quasi incontenibile di superstiziosi ex voto in cera, in scala naturale, colorati, con capelli e vestiti veri da appendere nelle chiese a cui ci si era votati; eppure abbiamo testimonianze che ci dicono che i boti (così erano chiamati gli ex voto in cera a Firenze) alla chiesa della Santissima Annunziata erano divenuti talmente tanti da richiedere dei rafforzamenti delle assi del soffitto a cui venivano appesi, e continui spostamenti e sostituzioni [6].
Ex voto, effigi dei regnanti, sostituti “ufficiali” di personaggi assenti: le sculture in cera hanno avuto funzioni alterne e fortune ancora più alterne, ma sicuramente hanno il pregio di renderci più consapevoli sia delle origini stesse dell’arte che della produzione artistica di altre epoche: infatti, nel corso dei secoli, «nei prodotti effimeri […] spesso c’è stata più arte che in molti monumenti dell’attività accademica, solenni, tediosi, “stilisticamente regolari” e potenzialmente eterni» [7].
[1] Giorgio Vasari, Le Vite dei più eccellenti pittori, scultori, architettori, a cura della Scuola Normale di Pisa, http://vasari.sns.it/, Giuntina, 1968, vol. III, pp. 543-544.
[2] Dione Cassio, Historia Romana, a cura di Boissevain, LVI, 34.
[3] Ivi, LXXIV, 4.
[4] Hans Belting, Immagine, medium, corpo, in Teorie dell’immagine, il dibattito contemporaneo, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009, pp. 87-88.
[5] M. Mori, The uncanny valley (1970), trad. ing. Di K. F. MacDorman e T. Minato, cit. in Pietro Conte, Unheimlich. Dalle figure in cera alla Uncanny Valley, in “Psicoart” n.2, http://psicoart.unibo.it/article/viewFile/2473/1845.
[6] A. Warburg, Arte del ritratto e borghesia fiorentina (1902), in La Rinascita del paganesimo antico e altri scritti (1889-1914), a cura di Maurizio Ghelardi, Aragno Editore, Torino 2004, pp. 137-141.
[7] J.V. Schlosser, Storia del ritratto in cera, a cura di Marco Bussagli, Medusa, Milano 2011, p. 201.
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