di Matteo Nepi
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Che fare quando si ha motivo di credere che all’interno di un cesto pieno di mele ve ne siano alcune guaste?
Si può tentare di risolvere il problema un po’ drasticamente svuotando l’intero cesto e rimettendovi una per volta solo quelle della cui bontà si è convinti. In questo modo forse rimarranno fuori dalla cesta alcune mele buone, ma almeno avremo la certezza che ogni singola mela che vi starà dentro sarà di ottima qualità. È questo il metodo che propone Cartesio per emendare l’intelletto da tutte le conoscenze false, o nelle quali si crede senza però saperne bene il motivo e quindi senza saperle giustificare. E allora… via tutto! In fondo, un demone maligno potrebbe ingannarci facendo sembrare evidente ciò che non lo è affatto. Ora il cesto delle nostre credenze è vuoto: non crediamo più a nulla, e cioè dubitiamo di tutto. Possiamo riempirlo da capo solo con ciò di cui non possiamo dubitare, e cioè, per cominciare, del fatto stesso che stiamo dubitando. Cogito, ergo sum!
Ecco, ora però chiediamoci se siamo seriamente disposti a fare il gioco che ci propone Cartesio. Domandiamoci cioè se siamo onestamente convinti di riuscire a dubitare indiscriminatamente di qualsiasi cosa e di buttarci nel vuoto dello scetticismo metodico.
In fondo, nella vita quotidiana, la possibilità che la memoria o i sensi ci ingannino, o il dubbio che il mondo potrebbe essere nato cinque minuti fa, non sembrano tormentarci più di tanto. Continuiamo a credere che un mondo con una sua storia c’è e che è fatto in un certo modo, anche se ci rendiamo conto di non poter giustificare in modo definitivo questa credenza. Siamo convinti di aver visto ieri una certa persona perché ci fidiamo della nostra memoria. Sappiamo di averla incontrata anche se proprio non ricordiamo come fosse vestita: l’imperfezione della memoria o la possibilità che i sensi ci confondano non le viviamo concretamente come ragioni per dubitare.
Eppure, se per esempio dovessimo prestare testimonianza in tribunale, quelle convinzioni ci apparirebbero forse un po’ meno solide: quel giorno avevamo il sole negli occhi, e potremmo aver scambiato un estraneo per quella persona che conoscevamo, oppure forse non l’abbiamo incontrata proprio ieri ma alcuni giorni prima. Ecco che quando cresce la responsabilità che ci si richiede di assumere per certe credenze, alcuni scrupoli che prima ci sarebbero apparsi ridicoli ora appaiono improvvisamente problematici, e allora la possibilità che la nostra percezione o la memoria ci abbia ingannato non ci appare più così lontana.
Ciò dimostra che il dubbio, in generale, è sempre possibile. Lo scetticismo, quindi, rappresenta per noi un problema reale e siamo costretti a chiederci perché, nonostante non disponiamo di certezze assolute, crediamo comunque a una grandissima quantità di cose.
In un articolo di qualche tempo fa, Amedeo Liberti si interrogava su quali fossero le ragioni per credere che il primo sbarco sulla Luna sia realmente avvenuto e non sia invece una gigantesca montatura. Ma questa domanda presuppone che in mancanza di certezza, il dubbio scatti automaticamente. Tuttavia ciò non accade mai: per dubitare, non è sufficiente – come vorrebbe Cartesio – il fatto che la credenza non sia provata in modo definitivo e assoluto, poiché in generale non esistono prove definitive e assolute. Possiamo dubitare di qualcosa solo se crediamo a qualcos’altro. In altre parole, anche per dubitare servono ragioni, o il dubbio stesso cessa di essere ragionevole.
Perché vi sia una verità qualsiasi, la catena delle giustificazioni deve necessariamente arrestarsi a un certo punto. Come la nostra richiesta di certezza deve avere un limite, così anche il dubbio. Oltre quel limite, qualsiasi dubbio si avvicina sempre più alla follia incontrollabile e all’ossessione. Ma come decidere come e dove porre il confine tra razionale e irrazionale? E chi può stabilire la fine della catena delle giustificazioni?
L’idea di “ragionevole dubbio” sembra in realtà nascondere un intento di natura pragmatica piuttosto che razionale, dove cioè “ragionevole” sarebbe sinonimo di “utile”: non possiamo andare avanti all’infinito, perciò dopo un certo numero di giustificazioni, quando ci sentiamo tutto sommato soddisfatti, ci arrestiamo. Ma in questo non c’è evidentemente niente di razionale, si tratta di un limite che non ci soddisfa e ci lascia il sospetto che, in fondo, non siamo venuti a capo proprio di niente. Questo sospetto del tutto legittimo è però causato da una certa concezione della verità che è molto meno legittima seppur decisamente maggioritaria. L’idea cioè che la verità sia ciò che si trova al di là del “velo” delle apparenze. Ma se c’è qualcosa che la filosofia è riuscita a dimostrare, è proprio che tolte le apparenze, banalmente, nulla appare.[1]
La verità, per poter esistere e per avere un senso qualsiasi, deve essere riferita al mondo dell’apparire, che è il solo di cui possiamo legittimamente parlare. L’esperienza che il linguaggio può descrivere è, in fondo, la sola che sia filosoficamente rilevante.[2] Questo ci porta a due conclusioni: la prima è che la Verità, quella con la V maiuscola, “al di là del velo”, è un concetto insensato poiché non si riferisce proprio a un bel niente; la seconda è che se il linguaggio è il luogo in cui le giustificazioni si danno, è privo di senso cercare di fondare il linguaggio su qualcosa di esterno a esso. Allo stesso modo sarebbe privo di senso chiedersi a che ora abbia cominciato a scorrere il tempo o cosa vi fosse “prima” che ciò accadesse.[3] In entrambi i casi si fa uso di una categoria al di fuori dell’ambito in cui essa ha significato. Il limite che poniamo al dubbio affinché sia ragionevole non è quindi una scelta di comodo, un’operazione pragmatica, bensì una scelta obbligata dalla natura stessa del linguaggio. Cercare di continuare la catena delle giustificazioni oltre quel limite, in ultima analisi non è né opportuno, né necessario.
L’emendazione dell’intelletto dalle credenze infondate può passare solo dall’eliminazione del dubbio irragionevole. A partire da questa emendazione è poi possibile costruire un sapere autentico e vivo, poiché la natura del linguaggio è dinamica ma non casuale. La verità di una proposizione dipende dalla verità di molte altre, e sebbene su alcune si faccia maggior affidamento poiché hanno dato più spesso buona prova di sé, non ne esiste alcuna che sia autonoma e indipendente. Il sistema delle credenze non ha una natura assiomatica come la logica o la geometria.[4] Il dubbio cartesiano così come quello complottista sono quindi da rigettare perché confondono la possibilità del dubbio con la sua legittimità. Le ragioni servono anche per dubitare, non solo per credere.[5]
[1] Cfr. E. Husserl, L’idea della fenomenologia, a cura di C. Sini, Laterza, Roma 2010.
[2] Per approfondire cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi 2009.
[3] Per quanto chiederselo sia in un certo senso “possibile”, la domanda risulta inopportuna in quanto fondata su un errore concettuale.
[4] Il fatto che una proposizione nuova venga creduta vera dipende necessariamente dalla credenza in molte altre proposizioni; allo stesso modo perché una proposizione prima creduta vera si trasformi in una falsa è necessario che siano sopraggiunte nuove credenze in proposizioni in contrasto con questa. È anche necessario però che le nuove credenze siano abbastanza forti da scalzare la vecchia convinzione dalla rete di credenze in cui era intrecciata. (Cfr. L. Wittgenstein, Della Certezza, Einaudi 2014.)
[5] Per approfondire l’argomento consiglio P. Spinicci, Lo scetticismo: un problema filosofico. Disponibile gratuitamente online a: http://www.filosofia.unimi.it/spaziofilosofico/dodeca/spinicci12/copertina.htm