Fotografie a cura di ph©CamillaGiannelli
di Victor Attilio Campagna
Al teatro I è in scena fino al 14 dicembre “C’è un diritto dell’uomo alla codardia”, una riscrittura di Germania 3, l’ultimo scritto di Heiner Müller, diretto da Renzo Martinelli e adattato da un team di drammaturghi.
Questo spettacolo non si basa su di una trama, bensì su un’idea di teatro che spesso ha fatto discutere: la quarta parete. Per chi non lo sapesse la quarta parete è quel muro immaginario che divide palcoscenico e platea: uno spazio quindi sia concettuale, sia fisico, che nel secondo 900 ha spezzato molti canoni del teatro, rimettendo in discussione l’idea stessa di drammaturgia.
Renzo Martinelli ha voluto portare in scena un omaggio a Heiner Müller, il quale ha rappresentato una delle vette maggiori del teatro contemporaneo, scandendo i termini di una nuova idea di spettacolo. In particolare, nella riscrittura di Germania 3, gli attori cominciano a perdere il senso stesso del loro ruolo: tutto si fonda sul fallimento. Già i movimenti, in bilico, lasciano intuire una sorta di metafisica dell’errore, dove l’attore ha un ruolo in fieri, un ruolo veniente, che cerca di fuoriuscire sulla base non solo della parola, ma anche del corpo, dell’espressione. Diventa così questo uno spettacolo sullo spettacolo, che dialoga con se stesso, mimando non una realtà, ma un’idea di realtà. Tant’è che gli attori commistionano eventi accaduti realmente alla finzione generale, di cui il teatro è fondamento, non solo nelle registrazioni al cellulare, che echeggiano lungo le mura del teatro, creando un gioco di suoni molto suggestivo, ma anche nelle posizioni che vengono adottate come un refrain: uno degli attori, ad esempio, aveva una lombalgia quando iniziò le prove per lo spettacolo e la sua posizione tipica, rassomigliante a quella di un pollo, era proprio dovuta alla posa di chi soffre di quel mal di schiena. È stato quindi non solo un lavoro su un ruolo o un personaggio, ma un lavoro specifico che attribuisse a ciascun attore una caratteristica particolare, propria, che gli appartenesse.
Un altro piano, molto importante, è quello relativo alla ridiscussione della drammaturgia: si va dalla farsa al teatro epico, fino al dramma borghese, in cui la storia viene a mano a mano depauperata, in cui tutto si affastella, si appiana, dimenticando le differenze tra presidente e popolo, attori protagonisti e comparse; ciascuno ha uno spazio composito, personalizzato.
C’è un diritto dell’uomo alla codardia è una ricerca del sé, un suggestivo passeggiare verso l’identificazione del proprio io di attore, in cui l’uomo si ridefinisce continuamente, non per giungere a una risposta, ma per arrivare a una domanda, e questo processo porta a un regredire, in cerca dei ricordi, anche personali, dove l’attore riconferma il proprio ruolo di maschera, senza però più il peso dell’identità nascosta: uomo e ipocrita (in senso letterale) coincidono quindi in uno spazio emotivo ed esistenziale fondato sul tempo che non passa e sull’errore. Sul finale c’è un invito: tocca a voi viene detto al pubblico, ma non perché quest’ultimo risponda, bensì affinché rifletta, ricerchi un senso nel fallimento di uno spettacolo in decremento, uno spettacolo che nella pratica è inesistente, o meglio, decrepito, inconsistente quindi, ma forte di questa evanescenza.
Gli attori sono molto forti, ciascuno abile secondo il proprio carattere e aspetto e il regista è stato bravo nel dare a ciascuno uno spazio, creando più che una riscrittura, una sinfonia teatrale, in cui gli strumenti non erano solo le voci, ma anche e soprattutto i corpi.