Tempō scaduto

eijiyanaika

di Davide Calzetti

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Emendare il paese dagli anacronismi del regime shogunale, ormai incompatibile con le interferenze commerciali e sociali dei paesi esteri. In Giappone, la dinastia Tokugawa, spietata nell’emendare i poteri diversi dal proprio, si vide ripagata della stessa moneta alla fine del XIX secolo.

Poter “ibernare” una società in un determinato momento della sua storia, così da poterla eternamente controllare con le medesime regole, instillando nei propri sottoposti certezze immutabili, rimane – oggi come ieri, in ogni cultura e ad ogni latitudine – il sogno proibito di ogni governante.

Quando, anche tra le rovine delle proprie ambizioni e costretto a nascondersi dai propri nemici sotto quel Reichstag dal quale aveva sognato di decidere le sorti dell’umanità, il Führer gridò che il proprio impero sarebbe durato diecimila anni, forse tentava ancora invano di convincersi che nulla fosse cambiato, che le regole del gioco fossero ancora quelle che lo avevano condotto al trionfo anni prima.

Il regime degli shōgun Tokugawa, istituito a inizio ‘600 da Tokugawa Ieyasu in Giappone, è forse uno degli esempi più emblematici di tale “società cristallizzata”. Ieyasu era stato uno dei protagonisti della Sengoku Jidai, “l’Età del Paese in Guerra”: un lungo secolo di brutali scontri tra i signori feudali giapponesi, innescato dal crollo degli shōgun Ashikaga alla fine del XV Secolo.

Una società rigidamente ordinata in quattro classi, l’espulsione degli stranieri che avevano portato nel paese il rombo della parola di dio e degli archibugi, i propri rivali privati delle risorse che avrebbero potuto impiegare per ribellarsi allo shōgun e, soprattutto, una salda e ben codificata filosofia neoconfuciana che considerava l’ordine e l’armonia come i massimi valori da rispettare avrebbero concesso agli eredi di Ieyasu quasi due secoli di sonni tranquilli nel proprio, mastodontico, castello di Edo.

Nei due secoli di dominio Tokugawa, tuttavia, l’ordinata società voluta dagli Shōgun subì un rapido e inaspettato mutamento. L’acciaio delle spade dei samurai arrugginiva mentre le mani dei loro proprietari impugnavano sempre più di frequente il pennello, nel complesso e farraginoso sistema burocratico shogunale. Per molti guerrieri, oramai solo di nome, il sogno di una gloriosa morte sul campo di battaglia venne sostituito dalla mediocre prospettiva di dover sopravvivere alla fine di ogni mese con stipendi sempre più magri, scambiati dalle avide mani dei tanto disprezzati mercanti che accumulavano ricchezze su ricchezze in un sistema proto-capitalista che scalpitava a fatica sotto le rigide briglie della società feudale. Anche i contadini, vero fondamento dell’economia, faticavano non poco a sostenere una sempre più dinamica e rapace società cittadina, verso la quale molti tentavano di emigrare sfidando le regole sociali che li volevano saldamente legati al loro campo.

Il Giappone che il ventiduesimo shōgun, Tokugawa Ieyoshi, ereditò agli inizi del XIX secolo era ormai profondamente diverso da quello voluto dai suoi antenati.

Una classe dirigente profondamente corrotta, dove il “denaro di ringraziamento” (detto più prosaicamente, “mazzette”) scorreva a fiumi come il sake nei quartieri di piacere della capitale di una società consumista, dove l’inflazione galoppava di pari passo con la perdita degli idealizzati valori di Confucio e della “Via del Guerriero”: un futuro che difficilmente Ieyasu avrebbe potuto immaginare sugli insanguinati campi della Sengoku Jidai.

Come se non bastasse, velieri stranieri iniziavano a violare le acque giapponesi, ponendo in pericolo la politica di isolamento dall’esterno imposta dal regime Tokugawa.

La protezione divina invocata nel dicembre 1830 dall’inaugurazione dell’Era tempō (“Era della Divina Protezione Imperiale”) non riuscì, tuttavia, a preservare il paese da una terribile carestia che fece impennare il prezzo dei generi alimentari, costringendo sempre più persone nelle campagne e nelle zone povere delle città a nutrirsi di foglie e paglia per sopravvivere. Anche molti samurai di basso rango, indeboliti dalla malnutrizione, soccombettero alle epidemie che trovarono fertile terreno tra i meno fortunati.

Un ex-ispettore della polizia e insegnante, Ōshio Heiachirō, tentò invano di convincere le autorità e la ricca borghesia di Ōsaka a soccorrere la popolazione stremata dalla fame. All’ennesimo rifiuto, decise di vendere i suoi libri e di usare il ricavato per sfamare i cittadini. Quindi, nel 1837, si mise a capo di una rivolta che devastò la città per giorni, prima di essere repressa nel sangue dalle forze governative.

Proprio nello stesso anno una nave americana, la Morrison, violò le acque del paese col pretesto di riportare in patria alcuni naufraghi giapponesi. La tonante risposta dei cannoni shogunali non si fece attendere: la politica del “Paese Chiuso” non permetteva eccezioni.

Nel 1841, quattro anni dopo i tragici eventi di Ōsaka, il consigliere dello shōgun, Mizuno Tadakuni, comprese la necessità di promulgare ciò che ogni società in profonda crisi si attende dai suoi leaders: le riforme. Il loro contenuto, tuttavia, era tutto fuorché rivoluzionario. Lo Shogunato impose una rigida austerità economica e sociale, sostenendo che i veri motivi della crisi fosse stata la dimenticanza dei valori di frugalità e armonia codificati all’inizio del periodo Edo.

La forzata cancellazione dei debiti samuraici con i mercanti e un duro giro di vite sulla libertà di movimento e commercio forzarono la discesa dei prezzi, senza tuttavia risolvere i problemi di fondo che piagavano l’economia giapponese.

Lo Shogunato stava solo prendendo tempo. Quando, nel 1852, tenendo la città di Edo sotto la minaccia dei cannoni delle sue navi nere, il Commodoro americano Matthew Calbraith Perry presentò allo shogunato una bandiera bianca assieme all’intimazione di aprire i porti giapponesi al commercio con l’esterno, fu chiaro a tutti come il tempo del Giappone Edo fosse oramai scaduto.

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Autore

  • Nasce a Carpi, in provincia di Modena. Dopo gli studi superiori di indirizzo linguistico si trasferisce a Venezia dove consegue una laurea magistrale in lingue e civiltà dell’Oriente, seguito da un Master in Economia del Turismo ed esperienze di insegnamento di lingua italiana in Giappone.

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