di Federico Filippo Fagotto
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«Occorre molto tempo per imparare il bridge. È quasi come l’ascesi tibetana»
Omar! Proprio tu parli?
Se c’è stata una persona edonista, godereccia, spendacciona e irascibile, che avrebbe fatto scappare a gambe levate un guru dall’Himalaya, è stato proprio Omar Sharif, e scommetto che nell’aldilà se la sta ancora spassando.
Dalla vita ha avuto tutto, lo ha detto lui stesso in una trasmissione italiana, ma in questo “tutto”, in effetti, contiamo anche la sua classe, l’aplomb, l’acume coltivato con gli studi di matematica e fisica, raffinato dalla letteratura francese ed esercitato instancabilmente proprio nel bridge!
Il bridge come forma di pratica allora, sì azzardiamolo pure. Omar era capace di entrare quasi in trance meditativa al tavolo verde, lo sanno bene gli amici del club dell’Orientale, in particolare Léon Yallouze, che per scommessa gli fece balenare davanti una spogliarellista del Cairo durante una partita al circolo, discinta dalla cintola in su (e anche in giù), mentre lui non smetteva di fissare cogitante le tredici carte davanti al naso.
D’accordo, penserete voi, per Sharif avere attorno delle fanciulle, non proprio vestite di tutto punto, era più comune che lavarsi i denti. Con le donne ne aveva viste di tutti i colori, anche di ultravioletti. Ci sono state donzelle capaci di puntargli una pistola addosso, intimandogli di spogliarsi e adempiere ai loro desideri, pur di averlo. Ma anche al bridge ne ha vissute parecchie, dalle prime Olimpiadi sino all’Omar Sharif Circus, da lui creato per sfidare – assieme ai campioni italiani come Garozzo, Belladonna e Forquet – i bridgisti di tutto il mondo, in stile Harlem Globetrotters. Il tutto inframmezzato da un’innocua attività come quella di star di Hollywood.
Le lunghe pause dal bridge impostegli dal cinema, tuttavia, dice lui, gli giovarono come una di quelle «cristallizzazioni» di cui parlava Stendhal, da lui letto e amato, che usava in questi casi la metafora del ramo gettato nelle saline di Salisburgo e che, una volta estratto, appare ricoperto di cristalli. Anche qui un distacco ascetico e, grazie ad esso, un Accrescimento del proprio livello di gioco e di comprensione del senso del bridge.
Fra la sua carriera di attore e quella di bridgista cade quindi una differenza simile a quella ravvisata nell’introduzione al nostro tema [link]: repentina e fulminea la prima – balzata ben presto dal primo ruolo in Cielo d’Inferno dell’amico Youssef Shadin, alla notorietà dei personaggi mitici nei film di Lean, da Lawrence d’Arabia al Dottor Zivago – graduale, sofferta ed evolutiva la seconda, dalle curiose letture di libri per giocatori dilettanti, come il Blue Book sfogliato nelle noiose attese durante le prove sul set, all’onore di sedersi di fronte ai grandi giocatori del Blue Team di cui s’è parlato.
Alcuni parallelismi fra le due attività ricorrono pur sempre, ancora nel segno di un certo tipo di “accrescimento”, come la sua sudditanza (proprio lui, abituato a distinguersi e primeggiare), per gli avversari corpulenti, che siano Giorgio Belladonna – che già conoscete dall’articolo del numero precedente [link] – o anche solo un Orson Welles.
Ma a Omar piaceva pur sempre rischiare, che si trattasse delle corse di cavalli, che lo riempivano di debiti, o le poste al rubber, cioè in partita singola, che raggiungevano cifre astronomiche come quella del 1970, in cui lui e Delmouly si portarono a casa più di 57mila sterline. Nel bridge vero, però, quello da torneo, che si gioca a squadre e dove si è prudenti, Sharif conserva il suo lato di umiltà. Nell’autobiografia (La mia vita con il bridge), preferisce citare le mani che ha visto giocare ad altri grandi giocatori, oppure le proprie sciocchezze e i propri goffi errori, facendo quasi scordare che anche lui (magari una spanna sotto, ma non di più) era un grande cultore del gioco. La licita che porta ancora il suo nome, il “Due fiori Omar Sharif”, è ancora un’ottima versione dell’intervento 2♣ su 1NT Landy e di lui rimangono anche splendide giocate. Qui mi fermo, però, perché la tecnica del gioco non è affare di questo articolo. Per i più curiosi, si legga il resto della rubrica scritto per Bridge d’Italia [link]. È proposta una mano in cui la capacità che ebbe Sharif di attribuire una carta in più a quadri in mano all’avversario, rispetto a quanto ci si potesse aspettare, fu l’intuizione per il mantenimento di un contratto molto difficile.
Ancora una volta, dunque, un accrescimento, temperato da tutta la modestia – spesso falsa – con cui Omar presenta se stesso nelle proprie memorie, ma che è confermata da tutti coloro che ho incontrato e che lo hanno conosciuto, a cominciare dal mio maestro Steve Hamaoui, che conserva di Sharif teneri ricordi e bizzarri aneddoti, a Benito Leonardi, proprietario dell’unico negozio a Milano specializzato nel settore bridge (La Chouette, via del Bollo 7 – Milano [link]).
Per salutare il grande personaggio da poco scomparso, quindi, i cinefili lo descrivano con i loro occhi, le donne con il loro cuore, mentre noi cartomani con il rispetto che tutti condividiamo per l’immensità di questo gioco. «Un gioco che non ha limiti», dice Sharif stesso, e dove «la perfezione non esiste e non esisterà mai».
In questa rincorsa per asintoto, anzi, si inciamperà spesso finendo col fare bieche figuracce, ma proprio toccando il fondo del pozzo si trova la spinta sufficiente a tornare ad alti livelli. Non aggiungiamo altro, per non rivelare il prossimo argomento della rivista. In fondo basta la metafora con cui è Sharif a terminare la sua autobiografia: «Gettate l’uomo fortunato nel Nilo, egli risalirà con un pesce in bocca», cita da un antico proverbio egizio. Replica di Omar:
«Io potrei invece uscire dal bagno con un mazzo di carte fra i denti»