Accrescere il corpo del sapere

Ruscello d'inverno

di Rossella Fabbrichesi

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Accrescimento non è solo potenziamento, sviluppo in altezza, ma sviluppo in basso, di lato, in ogni direzione. Anche inversione di marcia: decrescimento, spegnimento, declino. Crescere è riconoscere che ad un certo punto non si può ulteriormente crescere, e iniziare ad attrezzarsi per la discesa. Dice l’I Ching: “Questo tempo è come il tempo in cui cielo e terra celebrano le loro nozze per poi plasmare e realizzare gli esseri viventi. Il tempo dell’accrescimento non dura e per questo bisogna sfruttarlo finché sussiste”.

Nelle operazioni quotidiane del nostro fare e nella consapevolezza che le guida noi scivoliamo lungo un fiume il cui alveo è costituito da una roccia dura composta dalle proposizioni e dalle credenze del cosiddetto senso comune, che non è poi nient’altro che il materiale depositato dal lavorio operoso delle generazioni precedenti [1]. Si pensi a come maneggiamo tranquillamente alcuni concetti chiave che ci permettono di orientarci nel mondo: il concetto di causa, di essere, di spazio, tempo, realtà. Concetti naturalmente esistenti in un empireo concettuale, validi in ogni luogo e in ogni tempo? Certamente no, come hanno chiarito molti grandi autori del ‘900 (da Heidegger a Wittgenstein, da James a Peirce); essi sono semplicemente orizzonti semantici che ci permettono di distinguere vero e falso, dubitabile e indubitabile, esistente e non esistente. Niente più che uno sfondo, un proscenio teatrale che troviamo già fatto quando dobbiamo recitare il nostro ruolo e svolgere le nostre argomentazioni, in qualsiasi disciplina intellettuale e persino nella nostra singola esistenza. Ma, certamente, l’alveo del fiume può diventare, anche se impercettibilmente, corrente. La materia della roccia dura viene sgretolata e lavorata dallo scorrere dell’acqua, la pietra si modifica. Però, come scrive William James, non si trasformerà mai una chiesa gotica in un tempio dorico [2]. Gli antichi modi di pensare, le antiche mitologie, persistono, pur trasformate a volte indelebilmente. C’è tutta la geniale visionarietà del darwinismo in questa posizione: il nostro coccige è lì a testimoniare che una volta avevamo una coda, c’è un’enorme differenza tra un rettile e un uomo, eppure l’evoluzione testimonia di una continuità…. E’ una specie completamente diversa, potremmo dire, quella che vive dentro di noi: siamo testimoni nel nostro stesso corpo – figuriamoci nel nostro modo di pensare! – della persistenza di altre catene generazionali e del loro insistere perfino quando sono scomparse le narrazioni su ciò che erano. Il corpo è marchiato dalla storia, è rotto a ritmi di lavoro, di festa, di riposo, è intossicato da veleni – cibi o valori – è disciplinato e reso docile. Il corpo è superficie di iscrizione degli avvenimenti, come scriveva Foucault [3].

Dunque, l’accrescimento della conoscenza e dell’esperienza è un delicato equilibrio di massimi e minimi: minimo di frattura, massimo di continuità. Ciò che guadagna lo statuto di verità, e di realtà corrispondente, si innesta su un corpo di vecchie verità che cresce, come cresce un albero, per l’attività di un nuovo strato di tessuto vegetale. Questa spiegazione concettuale ‘concresce’ anch’essa, potremmo dire, nel corso dell’‘800 per opera del darwinismo, del pragmatismo americano e, sull’altra sponda dell’oceano, dello storicismo, perfino di una certa ermeneutica. Scrive infatti Nietzsche, memore di molti passaggi goethiani: “noi siamo più che l’individuo, siamo anche l’intera catena”; “l’Ego è cento volte che una semplice unità in una catena di individui. E’ la catena stessa in tutto e per tutto” [4].

Ogni fatto è un divenuto, è un atto, o un insieme di atti; più precisamente è il risultato del connettersi di infiniti anelli stretti dal vincolo generazionale E’ questa catena, è questo vincolo, è questa storia che produce verità e realtà, e fuori di essa non si potrebbe neppure riconoscere ciò che si chiama ‘natura’, come scrive Marx nell’Ideologia tedesca. La “realtà sensibile” non è “un che di dato in maniera immediata dall’eternità e sempre identico a se stesso, bensì il frutto dell’industria e delle situazioni sociali; e questo esattamente nel senso che è un esito storico, l’esito dell’operare di tutta quanta una sequenza di generazioni, ognuna delle quali ha fatto leva sulle spalle di quella venuta prima, ne ha perfezionato ulteriormente l’industria e i rapporti” [5].

Resta però una domanda: come sorge il nuovo? Come può la catena dotarsi di nuovi, imprevedibili anelli? Come nasce un sapere diverso, inaudito, e come si impone? La psyché arcaica ad un certo punto diviene la psiche freudiana, dotata di inconscio. Si pensi all’infinita catena che stringe insieme, ma pure anche distanzia radicalmente, la psyché omerica, puro soffio vitale, la psyché di Pitagora, entità demonica e sovraindividuale, la psyché platonica, anima immortale quasi individuale e, via via, l’anima cristiana, lo spirito moderno, la coscienza psicologica, la psiche freudiana, fino ai movimenti sinaptici e neurocerebrali studiati nei laboratori sperimentali. Dall’anima omerica alla psiche indagata dagli psicologi clinici, fino al cervello dei neuroscienziati, c’è una distanza abissale, eppure la lingua è lì a testimoniare che schiere di generazioni hanno lavorato su uno stesso dato sensibile, manipolandolo, traducendolo, descrivendolo con le parole differenti dell’epos e della scienza. Ma come può, appunto, il nuovo essere nuovo, cioè essere assimilato nudo e crudo, e non cucinato, cotto in salsa vecchia? [6] Che differenza immensa tra l’osso intermascellare della tartaruga e quello dell’elefante!, scriveva Goethe nelle sue osservazioni scientifiche. Eppure una serie di infiniti passi di assimilazione invisibile li lega e se ricostruissimo a poco a poco la catena ripercorreremmo le tappe della mutazione, della lenta metamorfosi, e vedremmo la persistenza di alcuni tratti identificativi. Però, gli evoluzionisti ci spiegano che non si tratta solo di differenze impercettibili, che assommandosi ad un certo punto fanno sì che tra la scimmia e l’uomo ci siano più diversità che identità, ma si tratta di mutamenti anche radicali. Come si impongono?

Anche questo ce lo spiega mirabilmente Darwin: perché vi sia progresso, l’evoluzione deve contemplare l’estinzione. Se è vero che una generazione antica doveva contenere lo stesso numero di viventi di adesso, allora “per avere molte specie nello stesso genere NECESSITA estinzione” [7]. In una parola: ciò che si trasmette e cresce, di generazione in generazione non è tanto la vita – nel caso del sapere, la vita del significato – ma la sua morte, o meglio, la scomparsa, l’estinzione di quel senso, di quella verità che per noi oggi è viva e degna di nota, di apprendimento, di insegnamento. Acquisire senso storico, alla fine, non è proprio questo? La consapevolezza che ogni verità è fallibile e transeunte, che se vogliamo vedere proseguire la vita della verità dobbiamo contemplare molti errori, molte sparizioni, molti addii. Dobbiamo far tramontare molti soli o, come diceva sempre Nietzsche, imparare a dimenticare, cioè essere non storici. Imparare a dimorare sulla soglia dell’attimo, dimenticando il passato e evitando di prefigurare il futuro. La storia non è solo l’invincibile solidità della catena che si srotola, ma anche la sua fibra piena di buchi, di evanescenze, di oblii.

D’altronde, questo è un pensiero che troviamo espresso, in modo forse agghiacciante, ma cristallino, nella grande etica stoica mirante all’apatia. Si dice che gli Stoici riprendessero un aneddoto riferito a Anassagora che, alla notizia della morte del figlio, rispose impassibile: “Sapevo di averlo generato mortale”. Tale consapevolezza aiuta ad impostare un’etica della saggezza e della liberazione dalle passioni, ma anche una precisa filosofia dell’interpretazione.

La chiave di comprensione è proprio in queste due parole: generazione e mortalità. Quando si genera, si genera qualcosa che morirà; quando si forma qualcosa, questo qualcosa deperirà; quando si forma qualcuno, questo qualcuno perderà la forma che gli è stata impressa e si trasformerà. Far crescere significa avviare alla morte.

Ogni materia è il risultato di un processo storico-evolutivo che impone un patto tra le generazioni. Ma allora bisogna ammettere che il lavorio operoso e dedicato di queste schiere di uomini lavora tanto alla costruzione di senso quanto alla distruzione, tanto all’imposizione di leggi e riconoscimenti, quanto al dissolvimento e all’oblio, tanto alla creazione quanto all’annientamento. Generare significa affidare alla morte. Assumere consapevolezza di ciò significa tenersi distanti dalle superstizioni e dalle passioni inutili.

Quando insegniamo, a mio modo di vedere, è questo che dobbiamo trasmettere: l’esercizio di morte che è connesso ad ogni acquisizione concettuale. Melete thanatou. Questo era per Socrate la filosofia: preparazione alla morte. Come va inteso questo pensiero? Non semplicemente come un esercizio di morte, un’anticipazione della morte, una cura di sé in prossimità della morte, del “per ora non ancora e tuttavia in qualsiasi momento”. Piuttosto, come un “Prenditi cura della morte, esercitati a tra-passare”. A passare la mano, a non resistere all’evoluzione che è sempre anche estinzione, alla generazione che è sempre anche degenerazione, all’accrescimento che è anche deperimento. Scrive ancora Nietzsche che la forza suprema “quando non ha più nulla da organizzare, impiega la propria forza a disorganizzare” [8]. Bisogna prepararsi insomma al tramonto anche del sole che ha brillato più forte.

La filosofia è oggi, credo, l’unica disciplina che insegna a morire (a far morire le proprie idee e convinzioni). Ancora Nietzsche, nello Zarathustra, insegna l’essenziale: io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, perché essi sono una transizione [9].

Voglio seguire allora questa linea di pensiero non tanto per quanto riguarda il piano di una saggezza etica quale quella indicataci dagli Stoici – cui pure credo che il nostro tempo debba ripensare – quanto in riferimento ad una riflessione pedagogica. Mi sembra infatti opportuno chiedersi cosa si trasmette propriamente quando si opera in ambito culturale. Non ritorno su quanto dicevo prima: trasmettiamo un corpo di saperi che è in realtà composto dalla corrente di intere generazioni, che non è mai nostro e originale, ma è il ‘detto’ di un pensiero corale che si innesta in pratiche antiche e consolidate, che si è sviluppato in modo coerente, organizzato, e insieme incoerente e casuale, e la cui estensione trova intensità, alla fine, nella nostra voce, nella nostra attualizzazione, nella nostra ripresa. Lo sosteneva magistralmente Sartre: nessuno si costituisce da sé, ma lo può fare solo nella ripresa singolare di ciò che gli altri hanno fatto di lui. Ma, di più, trasmettiamo e diffondiamo, insieme con la nostra verità, che è poi appunto sempre una verità pubblica, custodita nella presenza viva di una certa comunità storica, l’infinito differenziarsi e sparigliarsi di questa verità, il suo declino, la sua parte mortale. Generiamo sapere e, nel generarlo, lo consegniamo al suo inevitabile tramonto, alla sua trasformazione. Ciò che trasmettiamo e affidiamo alla comprensione dell’altro è qualcosa che ci sopravanza e ci sfugge totalmente: il divenire altro di ciò che sentivamo proprio, di ciò che intendevamo dire. In una formula icastica potrei dire che ciò che si trasmette nel vero insegnamento è proprio la morte delle idee che pensiamo sia più necessario proteggere e far vivere in eterno. Ciò che facciamo vivere è la morte. Il buon maestro è colui che dice, come Zenone stoico, “Fate delle mie idee ciò che volete. Sapevo di averle generate mortali”.

Quel che diciamo e scriviamo genera effetti, effetti di verità, come diceva Foucault, che assolutamente non dominiamo, che sono fuori dal nostro controllo e dalle nostre intenzioni. E’ esemplare a questo proposito la vicenda di Copernico. Egli voleva probabilmente recuperare il sapere degli antichi Egizi, il sole dell’”antiqua vera filosofia” (come scriveva Bruno). Si muoveva così del tutto all’interno del sapere della sua epoca, dove il rinvio ai testi di Ermete Trismegisto era dominante. La sua opera recava spesso iscrizioni e simboli ermetici di fianco alle tavole cosmologiche eliocentriche, e gran parte del suo lavoro si impegnava a procedere per produrre quegli effetti di verità: la glorificazione della sapienza magica ed ermetica degli antichi. C’è chi dice [10] che la stessa centralità del sole fosse indagata da Copernico in relazione all’importanza che questo simbolo aveva nella teoresi ermetica. Eppure, i suoi calcoli e le sue scoperte ebbero risultati di tutt’altro genere. Egli aveva generato un corpo concettuale che non controllava e che procederà, nelle sue catene interpretative, lontano, molto lontano dalle intenzioni copernicane, rivoluzionando completamente il vecchio mondo. Le speranze di Copernico verranno meno – ma proprio per questo continueranno ad accrescersi e potenziarsi, pur trasformate. La tradizione dell’ermetismo, occasionata come si sa, tra l’altro, da un errore storico-filologico, si inabisserà e tramonterà, spazzata via dal nuovo mondo. Ma dal suo corpo morente altri organi di sapere assumeranno vita e movenze originali.

Cosa permette dunque al nuovo di imporsi, di rosicchiare dall’interno e sgretolare a poco a poco – a volte repentinamente – il vecchio ceppo che l’ha generato? Il mutamento di alcune pratiche di vita e di esistenza materiale. Per Copernico la nuova visione cosmologica si produsse e si installò vittoriosamente in virtù delle nuove osservazioni astronomiche, grazie al telescopio di Galileo, alla nuova matematica. Sono queste pratiche ad aver decretato la condanna a morte dei sogni rinascimentali del ritorno ad un sapere ermetico, alla sua potenza magica, così come saranno le pratiche che oggi si diffondono nella civiltà della comunicazione – le pratiche dei social network, agganciate ai dispositivi elettronici – a decretare la morte dei giornali e forse dei libri (che bisogno mai ci sarà più di avere dei giornali, quando, con un tweet, politici e opinionisti ci informano sulle ultime news?).

Stiamo dunque celebrando l’attività di un nuovo giornale, la tradizione del sapere pubblico, della libera opinione e della cultura illuminata, e stiamo insieme morendo, morendo a queste pratiche, mentre ne battezziamo inconsapevolmente altre. Viaggiamo trascinati dalla forza della corrente che, come diceva Wittgenstein, con il suo pervicace e costante procedere erode la roccia dura e la fa divenire sabbia che si deposita sul fondo e viene trascinata via dal flusso. Il punto è che nessuno di noi sa dove porterà la corrente, quali, quante e quanto dolorose siano le morti che ci aspettano.

[1] Così L. Wittgenstein, Della certezza, Einaudi, Torino, 1969, § 94-99.

[2] W. James, Pragmatismo, Aragno, Torino, 2007, p.42.

[3] M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Microfisica del potere, Einaudi, Torino, 1972.

[4] F. Nietzsche, La volontà di potenza, a c. di m. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano,2005, § 682, 687.

[5] K. Marx, F. Engels, Ideologia tedesca, a c. di D. Fusaro, Bompiani, Milano, 2011, pp. 383-5.

[6] E’ William James a proporci queste metafore. Cfr. Pragmatismo, cit.

[7] C. Darwin, Taccuini, a c. di t. Pievani, Laterza, Roma-Bari, 2008, B 36, p. 180.

[8] F. Nietzsche, op. cit., § 712.

[9] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 2005.

[10] Cfr. F. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Roma-Bari, 2006.

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Autore

  • Professore associato di Ermeneutica Filosofica all’Università degli Studi di Milano, specializzata nella semiotica di Peirce e nel pensiero di Wittgenstein, Nietzsche e dell’ultimo Foucault. Co-dirige assieme a Carlo Sini la rivista online di filosofia Nóema.

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