di Federico Filippo Fagotto
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È ora di colmare una lacuna grande come un cratere.
Chi non gioca a bridge, i non addetti ai lavori e tutti coloro che – soprattutto nel fiore degli anni – preferiscono passare un pomeriggio all’aperto piuttosto che seduti in un circolo con tredici foglietti in mano, ignorano la gloria di cui, senza saperlo, siamo stati ricoperti proprio da coloro che (a proposito di fiori), preferivano a quelli dei campi quegli altri disegnati sulle carte. Parlo dei successi della Nazionale Italiana di Bridge nel corso della seconda metà del Novecento, grazie al gruppo di giocatori eccezionali che va sotto il nome di Blue Team. Un vero ariete da torneo che incarna per noi la Potenza del grande.
È strano che un paese come l’Italia, abituato sia ad eccellere, nonostante l’esiguo organico, in diverse discipline che, proprio per questo, sospinto ad incensare ognuna di esse, non ricordi mai, al di fuori dell’alveo del bridge, il predominio del Blue Team a partire dagli anni ’50. Approfittiamo, quindi, di poter parlare di questo gioco in una rivista non specialistica, confidando che a qualche lettore della Tigre di Carta scappi un click sbagliato e prima di poter dire: «Azz! Sono finito sulla rubrica di bridge…», si incuriosisca all’avventura dei giocatori dalla forma fisica poco eroica che composero questo gruppo.
Anzi faremo di più, dedicheremo al Blue Team più di uno dei nostri temi, per rendere conto del fatto che in esso qualche anonimo cuoco seppe dosare due riusciti ingredienti: la conquista di una coesione elevata e forse irripetibile, aggiunta al valore individuale vertiginoso dei singoli giocatori. Qui ci concentreremo su quest’ultimo, vista la somiglianza con il caparbio e vittorioso individualismo dell’esagramma La potenza del grande, di cui ci siamo occupati questo mese.
Strofiniamo subito il dito sulle punte di diamante, allora. Prima di tutto le vittorie del Blue Team: stiamo parlando di ben tredici Bermuda Bowl (il torneo più prestigioso nel mondo del bridge), conquistati fra il ’57 e il ’75 (quindi in soli 18 anni), e, nei ritagli di tempo, un bel contorno di 11 Campionati Europei e 3 Olimpiadi. Gli Statunitensi, fino ad allora padroni incontrastati del gioco, ci vedevano come fumo negli occhi, soprattutto perché il loro bacino d’utenze cui attingere per la nazionale da rilanciare ai campionati internazionali aggiungeva, rispetto al nostro, almeno uno zero in più in fondo al numero. Il fumo è diventato poi nebbia fitta proprio sulla cima di questi successi – il momento descritto dal nostro tema – cioè il Bermuda Bowl di Southampton del 1975. Dopo che gli Stati Uniti avevano tirato un sospiro di sollievo con due vittorie agli inizi degli anni ’70, il Blue Team aveva reimposto lo status quo vincendo le due edizioni precedenti in Brasile e a Venezia.
Era ormai il momento del corpo a corpo.
Nell’arena del bridge, uomini di mezza età così innocui ad occhi profani – come Edwin Kantar, Benito Garozzo, Bob Hamman o Giorgio Belladonna – si trasformarono in autentici Juggernaut. Vogliamo allora dedicare un tributo a quest’ultimo geniale giocatore romano, Belladonna, tutt’oggi inarrivabile nel ranking mondiale sebbene scomparso già dagli anni Novanta, perché proprio il 12 maggio è ricorso il ventesimo della sua morte.
Arriviamo allora, senza cincischiare, al momento decisivo quando, durante il torneo, arriva una mano in cui gli americani giocano 6SA, che si dice ‘sei senza’. Anche per chi quest’espressione ha pari significato di una poesia di Fosco Maraini, non risulterà difficile capire che se, come si dice nel bridge, si tratta della conquista di uno Slam, qualcosa di grosso ci dev’essere sotto. Gli appassionati di Basket e Tennis spero ci capiscano. Quest’ultimi in particolare intuiranno magari la potenza di Belladonna quando decise di far di meglio ancora, azzardando un 7♣ (‘sette fiori’) cioè un Grande Slam, degno dello spirito di un Rod Laver.
La mossa era disperata e le probabilità di riuscita molto basse. Di solito quando si dice così cosa vuol dire?… Risposta esatta: ci è riuscito! Persino a lui tremarono le mani, però, e intanto mormorava con tono crescente: «Mio Dio, mio Dio!». In quel momento però, con rispetto parlando, di divinità ce n’era una sola: era lui.
Ancora oggi, per quanto il gioco si sia sofisticato, la riuscita favorevole di alcune smazzate dipende dall’intraprendenza del giocatore in momenti in cui, a rigore, la “vittoria” (anche se col tempo vedremo che questo termine non è proprio adatto) spetterebbe agli avversari. Anche stavolta, quindi, per chi mastica un po’ di bridge o per lettori curiosi di assaggiare nuovi sapori, proponiamo l’articolo tecnico scritto per la rivista Bridge d’Italia –
[clicca qui].
Non resisto, inoltre, dal chiedervi di dare un’occhiata all’attuale World Bridge Ranking perché, per una volta, non fa male un po’ di patriottismo, che diamine!
http://www.worldbridge.org/openwmasters.aspx
[Postilla: dai nomi dei giocatori italiani ai primi due posti, capirete che la nazionalità monegasca riguarda soltanto la loro attuale scuderia d’appartenenza]
Fu così, per concludere, che scegliendo di giocare a fiori [♣] un contratto velenoso più dei fiori di Belladonna, che il Belladonna bridgista fece sbocciare l’altro grande fiore, quello del Blue Team, per il cui mito valgono le parole del suo capitano, Carlo Alberto Perroux:
«Dicono che il bambù fiorisce una volta sola ogni secolo. Noi abbiamo avuto la fortuna di assistere alla fioritura del bambù nel ridotto campicello del bridge italiano».