Rise of the Taira

3. Taira-Minamoto

di Davide Calzetti

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Dalle antiche cronache delle lotte fra Taira e Minamoto emerge un’immagine della ‘Potenza del grande’ in cui i desideri di dominio rivelano la propria onirica evanescenza, finché tramontano come sogni in una notte di primavera.

Lo Heike Monogatari o “Storia del Clan degli Heike”, opera epica che narra la caduta del potente clan giapponese dei Taira nel dodicesimo secolo, inizia con un passo che risuona di un potente ammonimento: «Gli orgogliosi non perdurano, sono del tutto simili al sogno di una notte di primavera». Il suo messaggio, profondamente intriso del concetto buddhista del mujō, o “senso di impermanenza di tutte le cose”, è una verità da sempre scomoda ai potenti, coloro che concepiscono la propria posizione di ricchezza e potenza come un immutabile dogma religioso. Nulla però dura per sempre e la potenza, sia che si basi sui freddi numeri della finanza di oggi o nel gelido acciaio delle spade delle armate di ieri è destinata, ineluttabilmente, a rivelare infine la propria onirica evanescenza.

La storia del clan Taira, della sua ascesa e ancor più della sua caduta, è per la cultura giapponese il perfetto esempio paradigmatico di questa verità. Una storia che, come tutte le storie, inizia con un dove e un chi: il Giappone del tardo periodo Heian (794-1185) dove il giovane rampollo dei Taira, Taira no Kiyomori, stava apprendendo il mestiere samuraico delle armi. Ancora lontani dall’epoca del loro predominio sui destini del paese, i samurai del tardo periodo Heian conducevano una vita assai più frugale dei loro successori, servendo i nobili della corte di Heiankyō in qualità di soldati e pacificatori.

Il padre di Kiyomori, Tadamori, aveva dedicato la vita a portare in alto il nome dei Taira ripulendo il mare interno del Giappone dai feroci pirati che lo infestavano minacciando i lucrosi rapporti commerciali con la Cina e tenendo a bada i rissosi monaci dei monasteri che circondavano la capitale quando, scontenti della nomina di un Abate o di una concessione terriera di troppo ai templi rivali, scendevano sulle residenze nobiliari lanciando anatemi e roteando minacciosamente le loro alabarde. I servigi resi alla corte imperiale valsero a Tadamori il riconoscimento stesso dell’imperatore, il quale lo volle come suo personale confidente e guardia del corpo. La decisione venne accolta con oltraggio da parte dei cortigiani del palazzo. Mai, sino ad allora, un rozzo guerriero samurai era stato invitato a respirare la stessa aria della colta e raffinata elite del palazzo. Alcuni sfogarono il loro risentimento con un fallito tentativo di assassinio al quale il samurai sfuggì miracolosamente.

Tadamori sapeva che per essere accettato come pari dalla nobiltà della capitale non bastava il solo rango, ma anche la ricchezza culturale e materiale che da secoli erano i requisiti indispensabili di status symbol tra la gente di corte. Mentre il giovane Kiyomori cresceva dedicandosi alle arti marziali, in particolare quella del tiro con l’arco, l’arma per eccellenza del samurai dell’epoca, il padre non cessava di stressargli l’importanza di divenire esperto nei classici cinesi e di crearsi una robusta base economica grazie ai commerci con le avanzate realtà del continente. Alla sua morte, nel 1153, Kiyomori ereditò dal padre il posto di capo supremo del clan e il suo sogno: rendere i Taira la potenza dominante della scena politica dell’epoca.

Tre anni dopo,  Kiyomori ebbe finalmente l’opportunità di iniziare la sua scalata al potere. L’ennesima diatriba per la successione al trono imperiale causò una spaccatura nelle più importanti famiglie del tempo e Kiyomori si trovò a militare tra le fila dei sostenitori dell’imperatore Go Shirakawa contro il proprio zio Taira no Tadamasa, leale all’imperatore Sutoku. Al suo fianco l’esponente del clan che sarebbe diventato il rivale per eccellenza delle ambizioni dei Taira: Minamoto no Yoshitomo. Ancora ignari del proprio futuro di inimicizia, i due combatterono assieme nella torrida estate del 1156 sconfiggendo il nemico e portando sul trono del Crisantemo Shirakawa, che li ricompensò rendendo Yoshitomo il capo del proprio clan ed elevando Kiyomori ai più alti gradi della gerarchia di corte.

Nel 1160 Yoshitomo, convinto che l’imperatore avesse concesso eccessivo potere al suo ex-alleato, approfittò dell’assenza di Kiyomori dalla capitale per organizzare un golpe e rapire Shirakawa e suo figlio per piegarli al suo volere. Kiyomori ritornò precipitosamente in città e alla testa del suo esercito sconfisse i rivoltosi, uccidendo in battaglia Yoshitomo e il fior fiore della gioventù dei Minamoto. Solo ai figli più piccoli del suo rivale fu risparmiata la vita. Una decisione magnanime che, come quella di Cesare nella Roma di secoli prima, i Taira avrebbero rimpianto amaramente.

Senza più rivali Taira no Kiyomori, nominato Primo Ministro, poté finalmente coronare il sogno paterno. La corte imperiale era sotto il suo controllo, le sue figlie nel talamo imperiale e la capitale del clan, Fukuhara, si espandeva grazie ai commerci con la Cina. Fu allora che Kiyomori, pieno del suo successo, decise di tentare l’impensabile imponendo come nuovo imperatore il nipote Antoku a scapito del legittimo erede Go Toba, il quale lanciò una richiesta di aiuto alla propria causa. Gli eredi, ormai cresciuti, dei Minamoto furono pronti a raccoglierla, scatenando la Guerra Genpei. Kiyomori, oramai anziano, non visse abbastanza per vederne la fine e si racconta di come fosse perito in preda a terribili visioni di morte.

Nella primavera del 1185, nella baia di Dan no Ura, il suo sogno svaniva inghiottito dai flutti dello Stretto di Shimonoseki.


Note

1. McCullough, Helen Craig, The Tale of the Heike, 1988, Standford University Press, p. 23.

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Autore

  • Nasce a Carpi, in provincia di Modena. Dopo gli studi superiori di indirizzo linguistico si trasferisce a Venezia dove consegue una laurea magistrale in lingue e civiltà dell’Oriente, seguito da un Master in Economia del Turismo ed esperienze di insegnamento di lingua italiana in Giappone.

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