di Tommaso Megale
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Nan-in [1], un maestro giapponese dell’èra Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.
Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare.
Il professore guardò traboccare il tè poi non riuscì più a contenersi. “È ricolma. Non ce n’entra più!”
“Come questa tazza,” disse Nan-in “tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?”.
in-comprensione
Se non riusciamo a fare silenzio nemmeno un momento ci sarà difficile ascoltare qualcosa.
Se la nostra tazza ricolma e traboccante è la manifestazione di opinioni e congetture, che rapporto intercorre tra forma e contenuto?
Chi siamo noi senza le nostre opinioni e congetture?
Due linguisti vissuti all’inizio del secolo scorso, Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf studiando le lingue dei nativi americani notarono che le diverse strutture sintattiche tracciavano modalità di pensiero e orizzonti di senso totalmente sconosciuti ai parlanti delle lingue europee. In seguito ai loro studi, tracciarono quella che si sarebbe chiamata ipotesi Sapir-Whorf, per cui la lingua d’appartenenza avrebbe in sé la proprietà di condizionare il pensiero. La mediazione sociale e culturale attraverso l’apprendimento della lingua materna condizionerebbe perfino l’apprendimento dei dati percettivi immediati.
Forse stiamo piegando male le cose? Dov’è il discrimine tra forma e contenuto?
Il professore universitario può dirsi tale senza opinioni e congetture?
La tazza è da tè anche quando il tè non c’è?
La potenza definisce il grande.
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[1] Nyogen Senzaki e Paul Reps (a cura di), 101 Storie Zen, Adelphi Edizioni, Milano,1973, p.13.