Intervista a Fritjof Capra

iltaodellafisica

di Amedeo Bellodi, Gabriele Pichierri e Federico Filippo Fagotto

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‘Il Tao della fisica’ – il libro che ha condotto intere generazioni sul sentiero del confronto fra la scienza moderna e gli antichi saperi orientali – ritorna con lo sguardo del suo autore, Fritjof Capra, a quarant’anni di distanza. La Tigre di Carta intervista il fisico austriaco anche in merito al tema dell’I Ching.

AMEDEO – Allo stesso modo in cui, in The Tao of Physics, si rimarca il fatto che la ricerca di un incontro fra gli opposti sia corrisposta nella fisica quantistica della duplice natura della luce di onda e corpuscolo, oggi si cerca di avvicinare la teoria dell’estremo grande (la relatività generale) e la teoria dell’estremo piccolo (la meccanica quantistica). Come vede gli sviluppi di questa ricerca e crede che si possa davvero giungere ad una grande teoria unica che risolva questa dicotomia?

F. CAPRA – Nonostante gli sforzi più energici durante più di un mezzo secolo, l’unificazione della teoria quantistica con la teoria della relatività generale di Einstein, — nota come quantum gravity — fin’adesso non è stata realizzata. L’approccio più popolare e più impressionante, che ancora sta evolvendo, è stato quella della teoria delle stringhe che, però, ha dei seri problemi. Il primo è che ci sono parecchie versioni della teoria con diversi numeri di dimensioni spaziali, e il processo di ridurre queste dimensioni alle quattro dello spazio-tempo attuale non è senza ambiguità. Ancora più serio e il problema che la teoria non è stata provata da esperimenti. C’è una moltitudine di teorie delle stringhe, nessuna di quelle capace di spiegare i valori dei principali parametri del modello standard.

Alcuni fisici pensano che la principale debolezza della teoria delle stringhe come una teoria della gravità quantistica si trova nel fatto che la teoria è formulata in termini di stringhe vibranti contro un fondo fisso di spazio che non si evolve. Questa situazione è in contraddizione con la relatività generale, che ci mostra che la geometria della spazio e del tempo non è fissa, ma cambia nella misura che la materia si muove. Perciò, per essere coerente con la relatività generale, qualsiasi teoria deve essere formulata in untale modo che la struttura dello spazio-tempo ne emerge, piuttosto che essere presupposto come l’ambito nel quale i fenomeni fisici hanno luogo.

Questa problematica viene discussa ampiamente nel libro di Lee Smolin, The Trouble With Physics, che vi raccomando di leggere.

AMEDEO – La scienza, nelle civiltà più antiche, era nelle mani dei sacerdoti. Non è forse stata proprio la separazione tra questi due ambiti ad aver caratterizzato la separazione fra intuizione e razionalità? Intendo dire, non è stato forse ricercato un approccio più razionale e oggettivo per ottenere una descrizione più verosimile della realtà? Il ritorno all’intuizione a quali conseguenze può portare? Ad un allargamento del pubblico potrebbe corrispondere un abbassamento di qualità scientifica o piuttosto un ritorno alla realtà contingente che non esuli in mondi matematici perfetti e razionali ma del tutto astratti?

F. CAPRA – L’intuizione è importante nella scienza, com’è anche nell’arte o nel management, perchè ogni idea nuova, ogni modo di creatività, si serve dell’intuizione. Però, deve essere sostenuta dalla razionalità, e quindi dobbiamo cercare di arrivare a un equilibrio fra intuizione e razionalità. Secondo me, e questo che intendevano i saggi cinesi con la nozione di un equlibrio dinamico fra il yin e il yang.

GABRIELE – Le filosofie orientali hanno avuto un’influenza anche nello sviluppo della matematica. Penso ad esempio agli indiani che per primi accettarono lo zero come un vero e proprio numero, cosa impensabile per i greci e il mondo cristiano occidentale, proprio a causa della loro filosofia inadatta al concetto che rappresentava. Quale è stato il contributo maggiore del pensiero orientale alla matematica moderna?

F. CAPRA – Questo non è un campo dove sono esperto. Direi anch’io, l’invenzione dello zero; e poi, in un senso più generale, un’astrazione matematica particolare, molto diversa dall’astrazione geometrica dei greci, che è stato preso e sviluppato oltre dai matematici arabi, risultando nel brano importantissimo dell’algebra.

GABRIELE – Ciononostante, nel maneggiare oggetti matematici (spazi infinito dimensionali, varietà geometriche a quattro dimensioni) come è d’obbligo per capire davvero le teorie della fisica moderna, l’intuito deve a un certo punto lasciare spazio al puro ragionamento logico, astratto e rigoroso della matematica: in questo senso essa rappresenta l’unico linguaggio proprio della fisica moderna. Non c’è allora una incompatibilità profonda con quello volutamente contraddittorio, irrazionale ed evocativo delle filosofie orientali?

F. CAPRA – Qui incontriamo un problema fondamentale della fisica moderna, discusso ripetutamente da Niels Bohr. La matematica è l’unico linguaggio proprio, sì. Però abbiamo sempre bisogno di parlare dei nostri risultati anche nel linguaggio ordinario, pur sapiendo che è inadeguato. Mi sembra che i mistici orientali si trovano in una situazione simile. Non usano la matematica, ma hanno accesso a livelli di coscienza non ordinari, e vogliono parlarne pur sapiendo che il linguaggio ordinario è insufficiente.

FEDERICO – La nostra rivista si basa sul testo dell’I Ching e questo mese è uscito l’esagramma n° 34 – La potenza del grande, il quale, nell’ambito della conoscenza, si può interpretare come il desiderio di sapere. Lei cita Laplace, secondo cui un’intelligenza, cui fossero note le forze e le cause, conoscerebbe ogni fenomeno (p. 67), e parla anche della conoscenza intuitiva della mistica orientale. Ma Laplace era anche colui che, come fece notare a Napoleone, non ebbe bisogno di Dio come ipotesi, e anche la mistica orientale è ortoprassi più che religione. Come evitare, allora, il rischio di tendere alla divinizzazione del sapere? 

F. CAPRA – L’integrazione dell’intuizione e della razionalità non ha bisogno di una divinità, come ci hanno mostrato non solo i buddhisti, ma anche Leonardo da Vinci, che creò una perfetta armonia fra scienza e arte. (Non so se ho bene capito la domanda.)

FEDERICO – L’I Ching avverte anche che, al contrario, La potenza del grande può portare anche ad un crollo, una volta raggiunta una certa altezza. Lei cita il paragone di Suzuki sulla pratica Zen come «Il fondo di un secchio che si sfonda» (p. 62), analogo alle parole usate da Heisenberg per descrivere la rivoluzione scientifica dei quanti. Crede che, in fondo, sia necessario che la potenza passi attraverso un crollo delle certezze?

F. CAPRA – Sembra essere così. La teoria della complessità ci ha fatto capire che ogni novità si crea in un certo processo che passa attraverso una fase di disequilibrio, o crisi, nella quale c’è un crollo di alcuni concetti tradizionali (vedi il mio ultimo libro, Vita e natura, scritto con Pier Luigi Luisi).

Per l’incontro con Fritjof Capra ringraziamo il Gruppo Anima e il suo sincero rapporto di collaborazione.

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!

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