di Amedeo Bellodi
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Un gruppo di ricerca con alcune delle più grandi menti della fisica moderna cerca di ottenere una potenza più grande di loro: le creazioni della scienza contro le distruzioni dei suoi prodotti.
Signor Presidente
la lettura di alcuni recenti lavori di Enrico Fermi e di Leó Szilard, comunicatimi sotto forma di manoscritto, mi induce a ritenere che, a breve, l’uranio possa dare origine a una nuova e importante fonte di energia. Alcuni aspetti del problema, prospettati in tali lavori dovrebbero consigliare all’Amministrazione la massima vigilanza e, se necessario, un tempestivo intervento. […] Ella converrà con me, Signor Presidente, sull’opportunità di stabilire un collegamento permanente tra il Governo e il gruppo di fisici che, in America, lavorano alla reazione a catena, collegamento che potrebbe essere facilitato dalla nomina di un responsabile di Sua fiducia, autorizzato ad agire anche in veste non ufficiale.1
Il Presidente degli Stati Uniti d’America F.D. Roosevelt ha fra le mani questa lettera nell’ottobre del 1939, un mese dopo l’invasione della Polonia da parte della Germania di Adolf Hitler. La firma in calce è di Albert Einstein. È probabilmente anche a causa di questa lettera se prende piede uno dei progetti scientifici che ha maggiormente influenzato la storia del secolo scorso: il progetto Manhattan. Dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor il 7 dicembre del 1941 e la conseguente entrata in guerra degli Stati Uniti, le pressioni sugli scienziati che lavoravano al progetto si fecero progressivamente più intense: bisognava realizzare una bomba potente, frutto delle innovazioni scientifiche e tecnologiche di quegli anni, ma soprattutto realizzarla prima dei tedeschi. Il lavoro doveva avvenire nella più assoluta segretezza, fu quindi individuato un luogo lontano dalle coste ma facilmente raggiungibile, poco abitato, dove far convergere ricercatori e tecnici: Los Alamos, nel Nuovo Messico. Qui si costruirono case e laboratori per accogliere gli scienziati, strutture che per anni non saranno segnate sulle mappe. A chi vi abitava era persino proibito pronunciare il nome della città, che figura nelle corrispondenze private e sui certificati come “casella postale 1663”.
Fra gli italiani che presero parte al progetto, è presente il nome di Enrico Fermi. Nello stesso anno della promulgazione delle leggi razziali in Italia (1938), viene assegnato a Fermi il Premio Nobel per la Fisica. La cerimonia di premiazione, ricorda Edoardo Amaldi, provocò «una vera ondata di indignazione» in patria: Fermi non indossava l’uniforme fascista e invece di fare il saluto romano, strinse la mano al sovrano svedese. Quel che colpì maggiormente fu che egli approfittò di quel viaggio per intraprenderne uno ben più lungo negli Stati Uniti, portando con sé la moglie Laura, di origini ebree. D’altra parte, però, Emilio Segré (un altro fisico che partecipò al progetto Manhattan e premio Nobel per la Fisica) racconta di Fermi:
Lo attiravano i laboratori attrezzati, gli abbondanti mezzi di ricerca, l’entusiasmo che sentiva nella nuova generazione di fisici, l’accoglienza cordiale degli americani. […] Gli ideali americani, a differenza di quelli fascisti trovavano una profonda eco nell’animo di Fermi. Tutte le osservazioni e le considerazioni che ne seguivano lo preparavano spiritualmente ad emigrare, e quando alla fine si trasferì in America fu più l’esecuzione di un piano a lungo meditato che una decisione improvvisa determinata dalle circostanze.
Gli ingenti fondi statunitensi per la ricerca, la situazione politica europea e le persecuzioni antisemite portarono oltreoceano molte altre menti brillanti: allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti detenevano la più alta concentrazione di fisici del pianeta. Il fatto che tra i fisici che si trovavano in America e presero parte al progetto Manhattan, undici abbiano vinto il premio Nobel per la Fisica induce a ritenere questo progetto uno specchio della potenza dei grandi della Fisica del Novecento. Non solo i fisici, in realtà, presero parte al progetto, ma un gruppo ben più variegato di grandi scienziati (matematici, chimici, ingegneri, medici,…) ma anche tecnici, segretarie, bibliotecari, inservienti, operai, infermieri…tutte le figure necessarie per far funzionare il laboratorio. Il progetto Manhattan arrivò ad impiegare 130 mila persone, venendo a costare quasi 30 miliardi di dollari americani di oggi alle casse della nazione.
Quale fisica sta dietro a questo progetto? Una fisica senza dubbio all’avanguardia. Il progetto derivava direttamente dalle grandi novità offerte dal periodo di rinnovamento che è stato il primo ventennio del Novecento. In particolare, la meccanica quantistica (e tra i partecipanti al progetto Manhattan, figura tra gli altri un certo Arthur Compton, che di meccanica quantistica qualcosa ne sapeva) aveva permesso di iniziare ad esplorare la materia e l’interazione con la radiazione su scale atomiche e subatomiche: il cosiddetto “mondo dell’infinitamente piccolo”. Risale proprio a questo periodo la prima descrizione quantitativa di quella che oggi è una nozione comune, ossia che un atomo si compone di una “nuvola” di elettroni che si muovono attorno ad una “palla” centrale (il nucleo) formata da protoni e neutroni. Nondimeno, sebbene a noi sia data per scontata l’esistenza del neutrone (la particella “cuscinetto”, elettricamente neutra che evita la repulsione dei protoni costretti nel nucleo), esso costituiva ai tempi una novità, che risaliva alle evidenze sperimentali osservate da J. Chadwick nel 1932. Proprio i neutroni assunsero un ruolo essenziale nello sviluppo della fisica del progetto Manhattan.
Senza addentrarmi nei dettagli, il fenomeno fisico su cui si basa la bomba nucleare è la fissione nucleare, semplificata nello schema (figura 1): essa consiste nel frazionamento di un nucleo pesante (un nucleo con un alto numero di protoni, come alcuni tipi di uranio e di plutonio) in due nuclei più leggeri, che si ottengono bombardando il nucleo originario con dei neutroni. La scissione in due nuclei avviene contemporaneamente all’emissione di energia e di due neutroni che appartenevano al nucleo iniziale: un po’ come se rompessimo un melograno a metà colpendolo con un chicco e, al momento della frattura, due grani fuggissero via. Quando questi “grani” diventano proiettili per ulteriori nuclei, il processo che si avvia è una vera e propria reazione a catena. In realtà, può succedere che una parte dei neutroni si perda: o perché sfuggono, o perché “catturati” da atomi che non si spaccano. Se il numero di neutroni prodotti rispetto a quelli persi aumenta, la reazione cresce rapidamente fino a diventare un’esplosione: un grammo d’uranio che subisce interamente fissione è in grado di sviluppare l’energia di circa 20 tonnellate di tritolo.
Gli esiti di queste scoperte li conosciamo e li ricordiamo ogni 6 agosto. La lapidaria sentenza dell’I King sembra quasi riferirsi direttamente a questo episodio della storia della Fisica, in cui l’uomo si è trovato a scontrarsi contro la sua stessa grandezza:
Incombe perciò il pericolo che ci si fidi della propria potenza senza chiedersi ogni volta se quanto si fa sia giusto. […] Giacché la vera potenza grande è proprio quella che non degenera in mera violenza, ma resta interiormente congiunta coi principi del diritto e della giustizia.
Figura 2 | Fotografie dei tesserini di riconoscimento di E. Fermi (sinistra) e J. R. Oppenheimer (destra) ai Laboratori Nazionali di Los Alamos. Credit: United States Department of Energy.
Già dopo che la prima bomba-test venne fatta esplodere nel deserto di Alamogordo (200 chilometri a sud di Los Alamos, nel luglio 1945), Robert Oppenheimer, che fu direttore del progetto Manhattan, riportò una frase ripresa dalla Bhagavadgita, testo sacro dell’Induismo: «Sono diventato Morte, il distruttore di mondi». Dopo il lancio della bomba su Hiroshima e Nagasaki, sentendosi in parte responsabile, commentò: «La fisica ha conosciuto il peccato». Anche Einstein, che in realtà non prese mai parte direttamente al progetto, scriverà all’amico Pauling, premio Nobel per la chimica e per la pace, interrogandosi sul suo operato:
Se avessi saputo che i tedeschi non sarebbero riusciti a costruire una bomba atomica, non avrei alzato un dito. Abbiamo liberato la potenza dell’atomo ed è cambiato tutto. Ma non il nostro modo di pensare e perciò stiamo andando verso catastrofi inaudite. […] Ho fatto un errore, nella vita, quando ho firmato quella lettera al presidente Roosevelt chiedendo che venisse costruito la bomba atomica. Ma forse mi si potrà perdonare: infatti tutti noi eravamo convinti che fosse altamente probabile che i tedeschi riuscissero a costruirla, e a usarla per diventare la razza padrona.2
Note:
1. Dalla lettera al Presidente F.D. Roosevelt, 2 agosto 1939, in Albert Einstein, Pensieri di un uomo curioso, a cura di Alice Calaprice, Mondadori, 1997.
2. Ibidem