Un grande decapitato

di Federica Griziotti

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Ascesa e caduta di un genio: Caravaggio, oltre che in pittura, mostra un’immagine scapestrata anche nella vita, causando, con la sua morte, una curiosa inversione: prima la caduta nell’oblio e dopo una nuova ascesa con la sua riscoperta da parte dei moderni.


Nell’immaginario comune l’artista per eccellenza è il tipico bohémien squattrinato che tira a campare, tra diversi espedienti e risicate committenze. Finché, secondo il più classico dei luoghi comuni, accade qualcosa ad un momento molto specifico della sua vita: la morte, il vero ribaltamento nella carriera di un artista, che lo trasforma da incompreso e tormentato individuo ad acclamato interprete del proprio tempo. La morte ha spedito più artisti all’apice della loro fama che non la vita stessa – e più del merito delle opere stesse, in qualche caso. Per fare un esempio virtuoso possiamo pensare ovviamente ad uno dei più amati pittori della contemporaneità, uno degli interpreti più intimi delle tinte inquiete dell’animo umano e allo stesso tempo più universalmente apprezzato: Vincent van Gogh. Come ben sappiamo, quello che oggi è uno dei nomi più famosi della storia dell’arte non riscuoteva certo lo stesso successo presso i suoi contemporanei, anzi, van Gogh al suo personale disagio esistenziale aggiungeva l’inquietudine legata al fatto di non riuscire a vendere i suoi quadri, sempre e quasi unicamente sostenuto – sia moralmente sia economicamente – dal fratello Theo. Ed ecco che magicamente appena un decennio dopo la sua morte le più importanti città d’Europa ospitano fieramente le sue tele e nei primi anni del Novecento il suo mito era conosciuto a Parigi, Amsterdam, Berlino fino a New York.

L’I King questo mese ci parla della potenza del grande, ovvero di colui che «si alza potentemente e giunge al dominio» ma ci avverte che la strada è lunga e tortuosa, ed è fondamentale ricordarsi che proprietà intrinseca della potenza umana è la sua caducità, purtroppo. Ce lo ricorda anche Jacques Louis David dipingendo il suo Belisario, invincibile generale bizantino di Giustiniano I, che «dopo aver conseguito vittorie in ogni angolo della terra» finì i suoi giorni come mendicante cieco, ridotto – forse dall’invidia altrui – a chiedere l’elemosina; tristemente famosa è l’incisione su pietra: Date obolum Belisario…

L’ascesa al potere e alla gloria, i ribaltamenti di sorte sono tematiche più che comuni sia nelle biografie sia nelle opere degli artisti. La fortuna mutevole di questi personaggi così affascinanti è caratteristica di tutte le epoche, ma i fattori variabili, in quanto tali, sono i più disparati: nascere in una famiglia agiata oppure provenire dal popolo, avere o meno la compiacenza di influenti committenti, al centro di circoli culturali… È banale sottolineare quanto l’unica conditio sine qua non sia ovviamente il talento e, in certi casi, il genio. Alcuni fortunati vedono la propria gloria accrescersi e diventare ufficiale quando ancora sono in vita, per molti altri invece la leggenda è quasi prassi, e il fatto che la rivalutazione dell’opera avvenga appena dopo la morte dell’artista è di dominio pubblico.

C’è un caso però che per la sua natura torbida e assai mutevole risulta davvero unico, ed è quello di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio: ritenuto uno dei pittori più geniali e potenti dell’umanità, egli è stato apprezzato in vita da molti colleghi, odiato da altri, tanto da causare risse e attentati alla sua stessa vita; è stato osannato da alcuni committenti per la potenza rivoluzionaria della sua pittura, ma altrettanto spesso censurato e rifiutato, e infine condannato alla pena di morte per decapitazione – applicabile da chiunque lo riconoscesse per strada – e cacciato da Roma per scelta della curia romana, che alcuni studiosi vedono come tacita complice del suo assassinio.

Per Michelangelo Merisi la nostra famosa leggenda della morte come punto di svolta nella carriera di un pittore non vale affatto, al contrario: l’unicità del suo caso sta nel fatto che egli, oggi uno dei più celebri nomi della storia dell’arte, è rimasto nel dimenticatoio e accantonato dalla letteratura critica per quasi trecento anni, durante i quali è spesso stato descritto come pittore di «ubriachezze, astrologie, compre di commestibili»1 o ancora come «il creatore di una poesia dell’orrido»2. Questo fino alla metà del Novecento, quando gli è stata restituita l’importanza capitale che gli spetta, grazie agli illuminanti studi di Roberto Longhi, che ha riportato alla luce la vicenda del Caravaggio e ne ha rivalutato lo stile pittorico, quando nel 1911 gli ha dedicato  la sua tesi di laurea, e poi ha curato le prime due mostre nella storia che lo hanno visto protagonista: nel 1951 «Mostra di Caravaggio e caravaggeschi», e nel 1953 «Pittori della realtà». Di certo quella di Caravaggio non è una biografia che descrive una parabola ascendente verso il potere, e nemmeno la sua fortuna storica potrebbe definirsi tale.

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Davide e Golia
Caravaggio (1607), Olio su tavola, Vienna, Kunsthistorisches Museum. Cm 90,5 x 116,5

A soli undici anni è a bottega da Simone Peterzano a Milano, dove impara il gusto semplice e il naturalismo dei pittori lombardi suoi predecessori come il Foppa, Bergognone, Lotto e il Savoldo. In questi primi quattro o cinque anni di apprendistato il suo carattere infiammabile si fa già notare, così incontenibile e ormai diciassettenne nel 1590 si trasferisce a Roma a bottega dal Cavalier d’Arpino – che ben presto diventerà suo nemico e rivale – e qui intraprende la sua carriera di pittore, traendo ogni ispirazione da figure e scene quotidiane e reali, meravigliose scene di genere volendo ben vedere, creando capolavori come i Bari o i Musici e il Suonatore di liuto – 1595-1596. Il primo periodo romano è però contrassegnato da giorni di nera miseria, come ci racconta Longhi: «il Giovinetto morso dal ramarro viene svenduto per venticinque giulî e la Zingara per otto scudi: ancora prezzi di fame»3; finché, dopo quasi un decennio di stenti, Caravaggio giunge all’incontro con il cardinal Del Monte, che segna il primo punto di svolta e la fine della sua vita di bohème. Ecco arrivare la prima importante opera pubblica, ovvero la committenza della cappella Contarelli per la Chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, per la quale Caravaggio realizza i tre meravigliosi dipinti raffiguranti San Matteo Il martirio, La vocazione e San Matteo e l’angelo, siamo ormai tra il 1599 e il 1600. La potenza della sua espressività innovativa non si può arginare: l’impostazione delle scene è drammatica, concitata e molto poco ieratica, l’utilizzo della luce in maniera teatrale caratterizza le tele con violento contrasto, ma soprattutto il santo e gli altri protagonisti delle tele sono raffigurati in abiti moderni; trovate rivoluzionarie e pietre miliari per tutto il futuro barocco, nelle quali purtroppo alcuni critici vedranno solo scene simili a «una comune rissa di strada».

La sua vita ai limiti della giustizia è stata da subito romanzata, egli appariva come lercio, irregolare, definito plebeo, indecoroso, eppure le sue tele religiose – e non – ammaliavano sia i suoi compagni di osteria sia i più alti prelati. Infatti poco tempo dopo aver dipinto la cappella Contarelli riceve il compito di raffigurare la Crocefissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo, per la cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, altri due capolavori. Ormai richiestissimo e giunto all’apice della fama, nel 1606, in seguito ad una rissa sfociata in omicidio Caravaggio è costretto ad allontanarsi da Roma e, con una condanna di decapitazione incombente, dipinge una delle ultime tele romane: la Morte della Vergine, rifiutata dai poveri sconvolti padri Carmelitani scalzi che si vedono consegnare una tela rappresentante una donna gettata su un tavolaccio di legno, morta, con le caviglie scoperte, livida e gonfia, figura probabilmente ispirata ad una prostituta morta annegata, secondo altri anche incinta, dunque non esattamente il soggetto ideale… forse è un po’ troppo per i padri di Santa Maria della Scala, ma non per Vincenzo I Gonzaga, che acquista la tela su consiglio del giovane pittore di corte Pieter Paul Rubens, per il quale «evidentemente il rifiuto religioso non implicava il rifiuto artistico»4. Dopo aver completato opere del calibro de La cena in Emmaus, Caravaggio fugge da Roma e inizia le sue peregrinazioni al sud facendo tappa a Napoli, poi Malta, Siracusa, Messina e Palermo, negli anni tra il 1606 e il 1610. In questo periodo il suo stile matura e si evolve diventando forse più oscuro e concentrandosi senz’altro sul macabro tema della decollazione, come testimoniano il Davide con la testa di Golia e la Decollazione del Battista, dove nei volti di Golia e del Battista sono riconoscibili le fattezze di Caravaggio, che immaginava autobiograficamente così la sua fine nelle mani della giustizia romana. La sua fine avviene invece a causa di febbri malariche, nel 1610, a Porto Ercole in riva al mare, dove era di scalo per rientrare a Roma, poiché proprio in quei giorni il condono papale gli era stato concesso e spedito, ironia della sorte.

È proprio il caso di dire che la biografia di Caravaggio non è un’ascesa lineare al potere, e  personalmente credo gli si addica perfettamente l’esagramma della potenza del grande, in cui: «Il creativo è forte, l’eccitante è movente», parole che trovano piena espressione nella sua coinvolgente vicenda, oltre che nella sua geniale e attraente opera.


Note:

1. R. Longhi, Caravaggio, Abscondita, Milano, 2012, p. 80.
2. Ivi, p. 81.
3. Ivi, p. 19.
4. G. Dorfles, A. Vettese, Storia dell’arte, Atlas, Bergamo, 2006, p. 403.

Autore

  • Una laurea in Scienze dei beni culturali, una Summer School a New York e il lavoro a Milano presso una galleria d’arte non l’hanno resa incapace di parlare insieme a te dei quadri con lo stesso entusiasmo di una alle prime armi.

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