di Ivan Ferrari
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Per un poeta come W. Blake, l’apertura delle porte della percezione significa l’aumento della propria potenza espressiva. Ma per evitare la caduta della colpa dal paradiso perduto, occorre che il grande poeta sia potente anche nel superare i limiti della morale dell’obbedienza.
L’I King insegna che la potenza interiore può indurre l’ansia del dominio, un sentimento disorientante in fatto di giustezza e tempestività dell’azione. Secondo l’oracolo cinese, l’unica forma di grandezza che va di pari passo con la giustizia è la perseveranza. Se, invece, si guarda alla potenza come a un puro mezzo, si nota come quella migliore sia sempre silenziosa e seminascosta. Essa è come un piccolo torrente che scorre costante in una valle fino a mutarla in un canyon. A questa potenza nobile e irresistibile si contrappone l’irruenza cieca del caprone che s’impiglia con le corna negli ostacoli che vorrebbe abbattere. Una tale potenza, sterile e dannosa, è fondamentalmente illusoria e spesso cela una debolezza soggiacente.
In verità, è difficile parlare di potenza e di legittimità del suo uso. Spesso la poesia esalta la potenza dei vinti quanto quella dei vincitori, la grandezza nella vittoria quanto quella nella sconfitta. Altresì, spesso esalta tanto l’uso della forza quanto la rinuncia al medesimo. Un poeta che ha speso molte riflessioni sui concetti di potenza e impotenza, nonché sulla possibile legittimità di una scelta tra essi, è stato William Blake.
Egli fu uno dei cristiani più eterodossi e scioccò i suoi contemporanei a causa della propria ostilità alla religione tradizionale e al clericalismo, nonché per la sua difesa dell’eguaglianza sociale e della parità dei sessi. Nel The Marriage of Heaven and Hell, la cui prima edizione risale al 1790, descrisse la dottrina del cristianesimo tradizionale sul male come un culto dell’impotenza e dell’infelicità. Il male, infatti, consisterebbe in un atteggiamento attivo nei confronti di quelle realtà supreme dinnanzi alle quali l’uomo è chiamato a una remissiva passività1. In altre parole, il male sarebbe l’energia del corpo che si contrappone alla ragionevolezza dell’anima nell’accendere quella sensuale facoltà desiderativa che il buon cristiano si sentirà chiamato a cancellare da se stesso.
Blake riflette allora sull’immagine decisamente epica di Satana e della sua ribellione che Milton offrì nel Paradise Lost. Ivi l’arcangelo ha il merito di agire senza indugio, con intelligenza e costante determinazione per conseguire quanto ritiene di meritare. Egli persegue una sua idea di giustizia, per quanto amorale ed egoista, grazie a uno spirito forte e instancabile. Il suo eroismo è evidente quando lotta contro le sue stesse debolezze per migliorarsi e trionfare. La momentanea vittoria di Satana consiste nella corruzione della specie umana, quella definitiva di Dio consiste nella sua successiva redenzione. Satana riesce, tuttavia, a donare qualcosa di veramente prezioso alla coppia primigenia di Adamo ed Eva. Inizialmente, il primo si sente schiavo del proprio desiderio nei confronti della seconda. Dopo le traversie dovute alla Caduta, però, i due umani scoprono la propria complementarietà e la forza della loro unione, elementi talmente necessari alla realizzazione del loro destino da far parlare del peccato originale nei termini di una felix culpa. Questo aspetto lega strettamente l’immagine del Satana miltoniano a quella più antica del titano Prometeo e a quella più recente del goethiano Mefistofele. Infatti, Prometeo viola le leggi divine per donare all’uomo il fuoco e quindi la conoscenza tecnologica in nome di una sua concezione di giustizia che, generalmente, appare a noialtri alquanto condivisibile. Piuttosto che una semplice felix culpa, Prometeo si spinge a configurare l’ipotesi di un’autentica Deus culpa, in quanto la legge divina che combatte appare quantomeno difficile da comprendere. L’arcidiavolo Mefistofele, invece, è un essere malvagio. Tuttavia, egli si descrive come “una parte di quella forza che desidera eternamente il male e opera eternamente il bene.”2
Blake scrisse che Milton gli era parso impacciato nel delineare il punto di vista di Dio, perché egli, come tutti i veri poeti, è inconsapevolmente dalla parte di Satana3. Passa quindi in rassegna i cosiddetti proverbi infernali e tra essi appare questo: “Chi desidera, ma non agisce, alleva pestilenza”4 .In uno dei capitoli sulle apparizioni5, il profeta Ezechiele afferma che il Genio Poetico è l’ἀρχή, il primo principio ricercato dagli antichi filosofi greci che non riuscivano a trovarlo perché si sforzavano vanamente di concettualizzare l’imponderabile. Il Genio Poetico porrebbe all’origine dell’infinito una divinità quasi creandola o, perlomeno, ricreandola nell’immaginazione umana. Se il poeta commuta il desiderio di Dio nell’esistenza di Dio entro il proprio animo, com’è possibile credere che questo essere desideri un’umanità umile e passiva? Egli sembra concedere all’uomo l’azione per eccellenza, cioè l’azione creatrice, e la pone nelle mani del poeta che si eleva in questo modo a sommo artefice. Il poeta descritto in quest’opera è un soggetto attivo nella società, esemplificato da re David. Egli sfrutta il Genio non solo per interpretare il mondo, ma anche per cambiarlo. Avendo convinto il proprio popolo che l’unico vero Dio fosse il suo, David persuase gli ebrei del fatto che avrebbero necessariamente dominato il mondo sul piano religioso. Il loro successo dimostra l’efficacia di un’azione sospinta dalla persuasione più ferma, poiché gli affiliati dei tre monoteismi principali venerano quello che considerano lo stesso essere. Gesù è descritto da Blake, soprattutto in The Everlasting Gospel, come uno spirito libero dotato di un’immaginazione incontenibile e spregiudicata, incurante della logica come della morale. Gesù non offrì all’umanità un esempio di sottomessa mansuetudine, bensì quello di un’ostinata affermazione di sé.
L’uomo che rinnega le passioni, i desideri e la gioia terrena non può essere buono, forte e felice. Si trova piuttosto in quello stato di morte fattuale che coincide con Satana, il quale è essenzialmente un errore del pensiero. La chiave del paradiso non è il cilicio, ma la coltivazione della conoscenza e l’accrescimento dell’intelletto. Il concetto di “peccato” sarebbe quindi un’invenzione del clero, tesa a ingabbiare le facoltà degli uomini al fine di controllarli. I sofismi della teologia non possono giustificare il male e lo spirito della vita non è adatto all’assorbimento di codici morali esterni.
Queste considerazioni spinsero Blake a concludere che la divisione tra corpo e anima fosse una menzogna che allontana l’uomo da se stesso. Neppure Dio è realmente diviso dal creato e in ogni uomo o donna può realizzarsi la condizione che si realizzò in Gesù di Nazareth. Dio non è il padrone dell’universo e dei suoi abitanti, ma l’intima natura del tutto. Le religioni tradizionali sarebbero quindi una forma occulta di satanismo, tesa a depotenziare l’intelletto e la forza dell’umanità onde impedire la realizzazione del suo destino. Satana si è messo in condizione di essere adorato dai giusti e dai poeti facendosi passare per un titano6, per una di quelle energie di cui i creativi hanno bisogno. Insomma la strategia del male è far passare le proprie opere come opere divine e viceversa. Nel clero trova un alleato che sostiene questa finzione, perché esso, più di qualsiasi altro gruppo umano, si cura di tenere in catene le energie vitali presenti tanto nel cosmo quanto nell’intimo di ogni uomo. Dio ha invece creato libere queste forze per conferire all’uomo un tratto di se stesso.
Questo autore romantico appare talvolta molto vicino a Nietzsche, perché la sua critica dei luoghi comuni sfocia in una trasvalutazione di molti, se non di tutti i valori del suo tempo. La differenza più importante tra i due, però, consiste nel fatto che Blake è molto più positivo nella valutazione complessiva dell’umanità e della natura. Lungi da lui porre una differenza qualitativa tra i vari uomini, limitandola alle loro scelte. Inoltre, il fatto che il suo Dio non sia identico a quello in cui credono i più non lo conduce a un rifiuto totale della religione e della metafisica, bensì a un approccio molto personale alle medesime. Blake resta lontanissimo dalle posizioni che il filosofo tedesco espresse nell’Anticristo.
Il testo che ho scelto per questo articolo non è una poesia, ma una prosa poetica che ha influenzato molto i lettori del The Marriage of Heaven and Hell. Questo passaggio7 fu citato da Aldous Huxley nel saggio che scrisse, nel 1954, in merito alle esperienze provocate dalla mescalina, The Doors of Perception. Jim Morrison prese spunto da quest’ultimo libro per scegliere il nome del suo celebre gruppo. Essendo inoltre i titani, nella simbologia mitologica di Blake, le energie vitali del mondo a cui bisogna spezzare le catene, queste porte sono anche le adamantine porte del Tartaro dietro alle quali Zeus e i suoi fratelli incatenarono e rinchiusero gli esseri che prima di loro dominavano l’universo. Il compito del poeta è spingersi oltre le porte del Tartaro, cercando quel tesoro che Ungaretti aveva scorto nei sonetti di Blake, nei versi di Omero e nelle cosmogonie amazzoniche. La memoria che, come direbbe Mallarmé, si autonega nell’istante in cui si perviene alla sua radice. L’occhio puro ed esagitato di un bambino che vede il farsi parola delle cose in se stesso, l’occhio che chiarisce ciò che l’esperienza ha obnubilato. Si tratta, in fondo, di uno sguardo purificato, come quello che il filosofo platonico ottiene fuori dalla caverna. Non a caso anche Blake scelse la metafora di una caverna per descrivere un uso errato o limitato dei sensi e dell’intelletto. Non a caso anche Platone credeva che nella caverna, insieme agli schiavi in ceppi, vi fossero dei loschi individui intenti a inscenare un teatrino delle ombre per confonderli. Forse, in merito alla palese malvagità di quest’ultimi, si sarebbe dovuto scrivere qualcosa di più.
Note:
1. Cfr. William Blake, Il Matrimonio del Cielo e dell’Inferno, SE, tr. it. di G. Ungaretti, Milano, 2003, p. 13. Anche in questo caso ringraziamo Matteo Costanzo (Oscar) per le due calligrafie.
2. J. W. Goethe, Faust, vol. I, p. 1335.
3. Cfr. William Blake, cit., p. 17.
4. Ivi, p. 21.
5. Cfr. ivi, p. 31.
6. Cfr. ivi, p. 39.
7. Ivi, p. 35.