di Victor Attilio Campagna
///
Le sozzure dei fascismi e le reazioni ingenue ed energiche dei partigiani: nelle descrizioni di Pavese sull’Italia devastata dalla guerra civile, durante la Liberazione, si coglie forse un distinguo tra forza e potenza, accomunate purtroppo dal risultato della morte.
Cos’è la potenza? Questa domanda, all’apparenza semplice, nasconde delle insidie: di per sé, uno direbbe, potenza è sinonimo di forza. Niente di più sbagliato: la forza è un’azione, è protagonista di se stessa; la potenza invece è qualcosa che non si muove di per sé, ma potrebbe farlo (e questo spaventa più della forza per certi versi). La potenza è una qualità del possibile, che non può mai essere esplicitata, in quanto diventerebbe forza in tal caso, perdendo così la sua identità.
Su questa base La casa in collina di Pavese1 mostra con nettezza il pieno significato di questo sostantivo. In questo romanzo, pubblicato da Einaudi nel 1948, si traccia una storia inusuale della Resistenza contro il fascismo. Il protagonista, infatti, non agisce in prima persona, ma osserva da fuori il susseguirsi dei fatti. Cosa strana, visto che di solito i romanzi dedicati a questo tema avevano per protagonisti dei partigiani.
Pavese, invece, ha scelto come protagonista Corrado, un professore di Scienze di una scuola di Torino. Un uomo solitario, la cui unica compagnia è il cane Belbo, che appare sin dalle prime pagine e ricorre spesso come unico asse portante per il protagonista, insieme a Dino, il figlio di Cate, un amore passato di Corrado.
Corrado non vive a Torino, sottoposta a continui raid aerei, bensì in una stanza affittata da una vecchia e sua figlia, Elvira, «una zitella quarantenne, (…) accollata, ossuta» (pag. 17), che a malapena nasconde un amore per lui («M’accorsi che pensava a me con ansia» ibid.). Il nostro protagonista ha le idee molto chiare sin dall’inizio sul senso di questa storia:
Devo dire – cominciando questa storia di una lunga illusione – che la colpa di quel che mi accadde non va data alla guerra. Anzi la guerra, ne sono certo, potrebbe ancora salvarmi. Quando venne la guerra, io da un pezzo vivevo nella villa lassù dove affittavo quelle stanze, ma se non fosse che il lavoro mi tratteneva a Torino, sarei già allora tornato nella casa dei miei vecchi, tra queste altre colline. La guerra mi tolse soltanto l’estremo scrupolo di starmene solo, di mangiarmi da solo gli anni e il cuore, e un bel giorno mi accorsi che Belbo, il grosso cane, era l’ultimo confidente sincero che mi restava (pag. 16).
Già si intuisce da queste poche righe l’atteggiamento del professore: non gli importa della guerra, perché la considera qualcosa di inevitabile, quasi salvifica (non in senso futurista), al contrario il discorso si incentra sulla sua profonda solitudine, la solitudine di chi pensa, riflette e cerca di trovare il cuore di una questione. Solo l’animale Belbo, un essere incapace di parola, è di conforto, parimenti il bambino Dino, che sospetta essere suo figlio, che gli è vicino solo fino a quando non matura anch’egli un’ammirazione fortissima per i partigiani, ossia finché non prende le parti di un’idea, una posizione fortemente determinata.
In questa prospettiva già si intravede l’alternativa che vuole porre Pavese tracciando le vicende di questo anti eroe, un vigliacco all’apparenza: egli, in realtà, rappresenta più di tutto la potenza, ovvero quel moto fisso e istantaneo, in cui si manifesta la proposta di una possibilità, un’alternativa, la quale è costituita primariamente da una considerazione inappellabile secondo cui l’uomo, nella sua natura, non può prescindere da certe sciocchezze. Il culmine di questa riflessione verrà alla fine di questo romanzo, ma ne parleremo più avanti.
Già la totale assenza di nomi e contesti, se non accennati, sembra suggerire una volontà universalizzante, per cui l’Io narrante non è un Io, ma tutti gli Io, così come il paese in cui vive rappresenta tutti i paesi. Non è un caso che Torino sia una città distante, eterea, così come la scuola in cui Corrado lavora: compare poco, spesso è semplicemente riferita; c’è un forte distacco lungo tutto il romanzo rispetto a quel che può rappresentare una connessione con la mondanità, che siano il luogo di lavoro o la città sotto i bombardamenti. Pavese ha voluto creare un fecondo distacco attorno al protagonista.
Centrale è l’incontro con Cate, un amore passato con cui Corrado è stato poco lusinghiero. Del resto non può essere altrimenti: Corrado rappresenta un essere incompleto, a metà tra lo spirito contadino e il mondo intellettualistico e culturale; è proprio da questo mélange che nasce la sua capacità interpretativa, nonché la sua indifferenza, perché conscio dei due cardini centrali dell’umanità, ossia la terra e l’intelletto. Ne consegue che rendersi conto delle cose ha un prezzo: l’indifferenza. Quel che importa dell’incontro con Cate, infatti, non è la cosa in sé, bensì il tempo («Più che di Cate m’importava del tempo, degli anni»; pag. 21), perché solo in esso sta l’interesse e il giusto distacco interpretativo da cui trarre il valore di un individuo.
Ai fini del discorso centrale, ovvero della potenza del nostro anti eroe, l’incontro serve a introdurlo nel mondo. Con Cate egli non incontra solo una vecchia passione, ma soprattutto una compagnia d’individui legati a doppio filo con la mondanità, che lo tengono parzialmente adeso alla quotidianità, nonché il sopra citato Dino, che sospetta essere suo figlio per via del nome: Dino è il diminutivo di Corrado. Di fronte a questo incontro casuale, incorso in una delle sue tante passeggiate, Corrado è chiamato ad una responsabilità, quella dell’intellettuale. Difatti capita spesso che il professore si infiammi e gridi («E fatelo, allora, gridai»; pag. 65), esprimendo opinioni forti, spesso di rimprovero. E nonostante la sua forte inazione, nessuno lo rimprovera fino in fondo: solo Cate lo rimbecca, ma gli altri non osano, anzi, tendono a tacere e ad aspettarsi da lui una qualche risposta.
Tutte le facce mi guardavano. Anche Dino.
Ogni volta giuravo di tacere e ascoltare, di scuotere il capo e ascoltare. Ma quel cauto equilibrio d’ansie, di attese e di futili speranze in cui adesso trascorrevo i giorni, era fatto per me, mi piaceva: avrei voluto che durasse eterno. L’impazienza degli altri poteva distruggerlo. Da tempo ero avvezzo a non muovermi, a lasciare che il mondo impazzisse. Ora, un gesto di Fonso e dei suoi bastava a mettere ogni cosa in forse. Ecco perché mi ci arrabbiavo e discutevo (pag. 65).
Centrali sono lo sguardo e la volontà: il professore preferirebbe tacere, non parlare, non esprimersi, ma le aspettative degli altri lo obbligano a gridare, infuriarsi, parlare. Spesso capitano scene simili a quella sopra riportata, in cui «tutte le facce lo guardano», aspettano un riscontro, una risposta. Il professore rappresenta la potenza dell’intellettuale, che in un momento di guerra sa definire con grazia e arguzia la situazione, mettendo a frutto la sua visione d’insieme in forza di un’analisi più arguta e completa di un conflitto che tutti stentavano a capire. Dalle sue parole quel che emerge è una totale inerzia e spesso irride le velleità dei suoi compagni, esortando a non illudersi. A un certo punto dice a Cate: «Noi siamo un campo di battaglia, nient’altro», per poi aggiungere che: «Voialtri non posso essere io, (…) Io sono solo. Cerco d’essere il più solo possibile. Sono tempi che soltanto chi è solo non perde la testa»; (pag. 77). Egli si distingue dagli altri dicendo che l’altro non può essere lui, perché lui è fondamentalmente solo, ed è in questa solitudine che si anima il giudizio e la potenza del grande, che agisce in modo caparbio contro un grande evento. Più dei partigiani, perché egli nella sua inazione riesce a intuire e capire qual è il verso senso dei conflitti: il nulla. Ne comprende appieno l’inevitabilità in una conclusione di rara bellezza, in cui matura, rifugiatosi presso la casa dei genitori, lontano da tutti, persino dal cane Belbo, quanto sia insensato lottare in prima persona contro l’inevitabile stupidità umana. Infatti, egli non agisce imprudentemente, ma è sempre attento, presente a se stesso e non cede mai alla troppa potenza, di cui è conscio, ma cerca sempre di astenersi dal mostrarla, perché prima vuole avviare un processo cognitivo e analitico, che culmina nella coscienza che anche con la lotta nulla libererà davvero l’uomo dalla guerra.
Io non credo che possa finire [la guerra]. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: “E dei caduti che ne facciamo? Perché sono morti?” – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero (pag. 142).
L’animo doppio (contadino e intellettuale) del protagonista raccoglie l’essenza della guerra: i morti. In questo risiede l’insensatezza e la totale inconcludenza dei conflitti, così terribili, ma al contempo inevitabili, perché connaturati all’umanità. È sempre difficile capirne il senso, ma non esclude che un giorno, magari, potrà sapere il perché di tutti questi assassinii. In questo sta la grandezza di Pavese e del suo libro, nell’aver tracciato una visione netta e impietosa non solo del fascismo e del nazismo, ma anche della guerra civile che imperversava in Italia, per la liberazione dal regime, perché entrambe (e suona difficile scriverlo) hanno comportato morte e morti, in un massacro a cielo aperto dove non si vedeva fine. Con questo, Pavese non vuole definire idioti i partigiani, tanto meno insozzare la Resistenza. Anzi, la visione che ci rende dei partigiani è di bravi uomini, che decidono nella loro povertà di reagire e combattere, forse un po’ ingenui, ma comunque coraggiosi, energici. Estremamente differenti da fascisti e nazisti, uomini quest’ultimi la cui piccolezza emerge in ogni pagina. Pavese con tutto questo è voluto andare oltre il conflitto e ha cercato un modo di vederlo quanto più oggettivo e spietato possibile, tracciando nei suoi minimi anfratti il senso di una guerra, nonché il suo riflesso effettivo sul sociale. E la coscienza terribile non è tanto che fosse tutto inevitabile, ma che i morti rimangono e di quelli non si sa che farsene.
Note:
1. Cesare Pavese, La casa in collina, Rizzoli, Milano, 2003.