di Stefano Geatti
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Il tema della potenza del grande può essere sviluppato come un orizzonte interiore dell’esistenza umana ancora da realizzare, attraverso l’uso consapevole e non degenerato del linguaggio, in cui parola ed essenza umana coincidono.
A un primo sguardo potrebbe sembrare che l’I King ci abbia offerto, questa volta, un tema abbastanza semplice o, quantomeno, chiaro e distinto: eppure, riflettere a fondo sul delicato equilibrio che soggiace alla realizzazione della potenza del grande è ovviamente ben più complesso. Perciò, data l’enorme apertura interpretativa che ogni esagramma porta con sé, perché non azzardare un’ermeneutica più ampia del concetto offertoci? Perché non spingersi oltre l’immediato piano letterale?
Infatti, mi sembra che La potenza del grande non debba necessariamente ed esclusivamente rappresentare il semplice potere di un individuo, come a tutta prima potrebbe apparire. L’uomo si serve ogni istante di un elemento che sopra ogni altro è espressione intima del proprio essere, che in determinate circostanze lo può rendere grande o, al contrario, può farlo precipitare: la parola. Questo concetto riassume in sé ogni atto che possiamo definire lato sensu propriamente linguistico, attraverso cui ogni individuo – persino chi scrive in questo momento – tenta di portare sulla scena del mondo la propria personale immagine delle cose. I latini lo sapevano bene, in quanto nella profondità della loro cultura identificavano l’exprimere con l’ex-premere e noi ancora oggi portiamo, nel nostro personale uso della forza linguistica, i segni vestigiali di tale realtà. Wilhelm von Humboldt rende limpida tale prospettiva, sostenendo che «nella formazione e nell’uso del linguaggio penetra necessariamente l’intero modo di percezione soggettiva degli oggetti. La parola, scaturendo appunto da questa percezione, è una copia non dell’oggetto in sé, ma dell’immagine che questo ha prodotto nell’anima»1. Pertanto, appare chiaro come la parola possieda la capitale funzione di farci sentire parte di questo mondo e – aspetto altrettanto essenziale – di farci prendere pieno possesso della relazione vitale con gli altri esseri umani.
Il pensiero, che accompagna l’individuo in ogni piega della sua esistenza, non può essere nemmeno teoricamente scisso dal linguaggio, il quale, come una forza magnetica, attraversa le fibre sostanziali dell’essere umano. Come nella parola più elementare, il singolo nome, così anche nell’uso più articolato e discorsivo del linguaggio sono all’opera potenti processi di creazione simbolica, volti a prendere autenticamente possesso della realtà in cui ognuno è immerso. A tale proposito, Ernst Cassirer, non a caso attraverso un raro ed efficace uso della parola, afferma: «Il linguaggio non è una mera trasposizione del pensiero nella forma della parola […]. Esso non si limita a rispecchiare all’esterno il movimento interno del pensare, ma ne è una causa di fondo, uno degli impulsi e dei moventi più importanti. L’idea non è prima del linguaggio; essa diviene nel linguaggio e mediante il linguaggio. […] La dinamica del pensare e la dinamica del parlare procedono di pari passo; tra questi due processi ha luogo un incessante scambio di forze»2.
È dunque avendo in mano – o dovremmo forse ora dire “essendo” – questo straordinario strumento che è la parola che l’uomo infine contempla, plasma e comprende le cose del mondo e finanche se stesso, scavando nelle profondità della propria natura.
Non può sorprendere dunque il lettore che ora il nostro discorso volga verso Platone, colui che più di ogni altro pensatore ha fatto della parola l’espressione essenziale della propria filosofia. A tal proposito, Platone è divenuto nella storia della filosofia sinonimo stesso di dialogo, il quale è uno dei differenti usi possibili del linguaggio particolarmente utile per la nostra riflessione. Infatti, il dialogo platonico rappresenta la precisa incarnazione di quella condizione ancipite descritta dall’I King in merito alla potenza del grande: in esso troviamo fondamentalmente due poli contrapposti attraverso la parola stessa, attraverso il suo impiego e per gli obiettivi che si prefigge di raggiungere chi la adopera. Sembra chiaro al buonsenso comune che la potenza della persuasione, attraverso la parola, sia tutto ciò che cerca l’uomo dialogante – tramite l’esposizione del proprio essere di fronte agli altri e al mondo – e che, con ciò, ritiene di aver raggiunto una qualche superiore statura. Il dialogo appare così uno scontro tra potenze e ricerche di potenza.
Tuttavia, ho espresso l’intenzione di offrire una diversa interpretazione della questione, impostando il discorso su un piccolo gioco di parole sul tema dell’I King: in tal senso, possiamo dire che nella prospettiva della filosofia dialogica di Platone la potenza del grande si può raggiungere solo attraverso un esercizio di ciò che è realmente potente e di ciò che può rendere autenticamente grande, ovvero della parola stessa, la quale – in sorprendente accordo con il monito dell’antico testo cinese – ha la facoltà di innalzare l’animo di colui che l’adopera o di schiantarlo, qualora sia «impotente a seguire questo volo»3.
È proprio nel Fedro che viene discussa tale questione e, giocando su di un sublime quanto complesso binomio narrativo e filosofico tra l’eternità dell’anima e l’importanza della verità dei discorsi, Platone afferma: «Una vera arte della parola […] senza essere connessa alla verità, non esiste, né mai esisterà»4. Egli rappresenta in quest’ottica il massimo simbolo del concetto di potenza della parola: di una parola, però, che non è semplicemente un esercizio stilistico diretto alla mera persuasione, ma che al contrario si fa strumento vivente della ricerca della verità. Il personaggio platonico di Socrate, attraverso l’ironia filosofica che ne contraddistingue il linguaggio – e dunque anche l’essere specifico –, domanda all’ignaro Fedro (così come Platone domanda a tutti noi): «Forse che la retorica, presa nel suo complesso, non è una specie di arte per dirigere le anime attraverso le parole […]? Forse che questa non è la stessa, tanto nelle questioni minime che in quelle grandi e il suo giusto uso non è meno prezioso riguardo le materie più gravi come quelle più leggere?»5. Pertanto, tutta l’opera di Platone sembra essere il tentativo di mostrare la duplicità costante degli usi della parola e la necessità della ricerca di una potenza giusta, la quale offra all’individuo la possibilità di diventare sì grande, ma sempre nella direzione di una verità etica, ossia di assurgere alla condizione di pieno rispetto dell’uomo e di autentica intelligenza del mondo.
È chiaro dunque che la parola sia in sé una forza così potente che il confine tra l’innalzamento o lo smarrimento dell’uomo che possono venire da essa diventi estremamente sottile e labile, come ci mostra la sferzante satira del commediografo Aristofane: «Da loro [dai maestri di retorica] – pare – ci sono entrambi i ragionamenti: quello forte […] e quello debole. E dicono che uno di questi due ragionamenti, quello debole, fa vincere coi discorsi le cause più ingiuste»6; Platone, dal canto suo, ha messo in guardia l’umanità intera proprio dal cosiddetto “cacciatore di opinioni” 7, campione dell’uso sofistico e meramente persuasivo del linguaggio.
Al fine di mostrare ulteriormente il delicato equilibrio sotteso tra il buon uso della forza della parola, ossia la ricerca filosofica, e il suo utilizzo degenerato, ossia come spregiudicato strumento di persuasione, è Platone stesso a proporre nel Gorgia le rispettive metafore del medico e del cuoco, affermando: «Sotto la medicina scivolò la culinaria, che simula di sapere quali siano i migliori cibi per il corpo, onde se un medico e un cuoco dovessero scendere in gara, in mezzo a ragazzi […], perché si giudichi su chi dei due conosca meglio la buona o la dannosa qualità dei cibi, il medico morirebbe di fame»8. Sebbene questa prospettiva sembri far vacillare quanto detto finora, tuttavia è proprio dai meandri del linguaggio dialogico di Platone che possiamo ricavare la profonda verità offertaci; mantenendo la metafora medica presente qui come anche all’interno del Fedro, scopriamo che il termine “phármakon” possiede una duplice identità: da una parte significa “farmaco” e dall’altra “veleno”, da una parte è ciò che salva e mantiene in vita, dall’altra è ciò che uccide.
In tal senso, quindi, Platone condivide l’idea per cui «la retorica in sé comprenda, per così dire, tutte le potenze e tutte le abbia in suo dominio»9, ma è perfettamente consapevole che la parola è un phármakon, ovvero è in sé uno strumento – come una medicina – potentissimo ed efficace nei suoi obiettivi, incarnato nell’essere umano stesso. Il filosofo, sempre consapevole della necessità di mantenere vivo e sano il proprio spirito critico, al pari del medico deve armarsi di questa forza, perché da essa dipende la riuscita del proprio sforzo, così come dipende dall’intelligenza di ognuno la possibilità di ricercare gli autentici principi di verità e giustizia, di elevarsi ed elevare, di medicare con perseveranza – per rimanere in metafora – attraverso di essa. La sfida enorme che si presenta all’uomo consiste nel tentare di mettere in gioco, attraverso il dialogo stesso, questa prospettiva riguardo la parola e l’idea per la quale la potenza di chi si può dire veramente grande dipende essenzialmente dall’uso che se ne fa.
Osservata da questa prospettiva, mi sembra che la questione si apra agli infiniti spazi che separano chi persegue la potenza per la potenza da chi, invece, si serve di questa forza per fini ben più grandi, contemplando in sé un rispetto eticamente fondato per l’uomo e la sua intelligenza; è proprio ciò che il Socrate del dialogo platonico tenta di mostrare a Polo, per il quale però non ci rimane che un’amara compassione:
POLO: Ma sul serio ti pare che i buoni retori siano considerati nelle città quali vili adulatori? […] Non hanno forse grandissimo potere nelle città?
SOCRATE: Oh no, se vuoi dire che “potere” è un bene per chi sia potente!
Note:
1.W. von Humboldt, La diversità delle lingue, in E. Cassirer, Tre studi sulla forma formans – Il linguaggio e la costruzione del mondo oggettuale, a cura di G. Matteucci, Clueb, Bologna 2004, p. 113.
2. E. Cassirer, Tre studi sulla forma formans – Il linguaggio e la costruzione del mondo oggettuale, cit., pp. 135–136.
3. Platone, Fedro, tr. it. a cura di P. Pucci, introduzione di B. Centrone, Laterza, Bari 2010, p. 51.
4. Ivi., p. 81. È da tenere ben presente che nel linguaggio platonico si annidano due differenti accezioni del termine “retorica”, laddove si vuole significare ora la sterile tecnica retorica dei sofisti, ora invece un’arte del discorso come veicolo di verità.
5. Ibidem.
6. M. Casertano, Aristofane-Nuvole, in M. Casertano – G. Nuzzo, Storia e testi della letteratura greca, Palumbo, Perugia 2007, vol. II, tomo I, p. 364.
7. Elisha Scott Loomis, The Pythagorean Proposition, ristampa della seconda edizione, The National Council of Teachers of Mathematics, Inc, Washington, D.C., 1968 pp. vii e seguenti, p. 244.
8. Ivi, p. 244.
9. Ivi, p. vii.