Chi vince all’alba?

di Matteo Mario Cesare Costanzo

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Sul suolo che ha dato i natali all’I King, un grande Maestro ambienta l’opera consacrata all’immagine del potere e della grandezza: la Turandot. Ma per quanto i grandi tenori si siano sgolati ad urlare la propria vittoria all’alba, la figura di forza e perfezione rimane quella femminile.


La potenza del grande. L’esagramma di questo mese ci propone di esaminare la grandezza di un individuo che si accinge a compiere una grande impresa, che si impone una sfida da superare, limiti da abbattere, obiettivi da raggiungere anche al di sopra delle proprie possibilità. Ebbene si può dire, in tutta franchezza, che questo eroe dipinto dall’oracolo altri non sia che il classico protagonista di un’avventura, come i molti che costellano le migliori pagine d’opera che ogni giorno nei numerosissimi teatri del mondo trovano il loro svolgimento dinanzi ad un pubblico attonito, partecipe, trascinato nota dopo nota al compiersi della mirabile magia che si consuma in eterno su ogni palcoscenico. Spesso le imprese sono di tipo amoroso e, difatti, quello dell’amore è uno dei temi più cari al bel canto, che lo sviscera in ogni modo, offrendo spesso risvolti carichi di tragicità e tensione.

Benché ci fosse, per il vero, la possibilità di scegliere tra una vasta gamma di personaggi grandi che attuano il proprio destino apprestandosi a compiere mirabili gesta, in onore della cultura orientale abbiamo scelto di proporre alla vostra attenzione Turandot, il capolavoro incompiuto di Puccini, il grande maestro lucchese che si può dire abbia portato in Europa una cultura così affascinante come quella orientale (giapponese con Madama Butterfly e successivamente cinese proprio con Turandot).

La grandiosa opera, forse apoteosi dell’eredità pucciniana, sicuramente specchio di una maturità musicale definitiva, si apre con un mandarino che annuncia al popolo:

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È chiaro: la mano della principessa sarà concessa solo a chi abbia tanto ingegno da riuscire a sciogliere gli enigmi (per la precisione tre) che lei stessa proporrà. Ecco la grande impresa, ecco ciò che il nostro eroe, un principe spodestato, si appresta a compiere. L’eroe entra in scena e ritrova suo padre, salvato ed accudito da Liù, una serva che, in virtù dell’amore che nutre nei confronti del fascinoso principe, ha prestato tante attenzioni al vecchio («E perché tanta angoscia hai diviso?»; «Perché un dì… nella reggia, mi hai sorriso»). Mentre si svolge questo quadretto familiare, il popolo acclama l’arrivo del boia, pronto a giustiziare il povero principe di Persia, sconfitto dagli enigmi. Possiamo apprezzare qui un pagina musicale davvero notevole: scorgiamo tra le note la piena maturità musicale del maestro, l’attuarsi di quello stile di musica così tipico del secolo XX, carico di suoni forti, talvolta al limite della cacofonia, quasi chiassosi, che bene esprimono la situazione di una affollata piazza di Pechino, gremita di gente, sovrastata dalle teste mozzate e infilate su picche dei malcapitati principi che sono caduti preda delle bellezze della terribile Turandot. E proprio all’arrivo della principessa a negare la grazia al giovane, l’ignoto principe perde completamente la testa, infuso di quella caparbietà che lo richiama verso il suo destino: «Vincere gloriosamente nella sua bellezza!». Egli corre verso quel gong che solo, se suonato tre volte, si pone tra lui e il raggiungimento del suo obiettivo. Ma ecco apparire i simpatici ministri Ping, Pong e Pang che, in una divertente performance canora, cercano di dissuadere l’audace principe dal cimentarsi in un’impresa così folle. Anche Liù, in un’aria di bellezza e raffinatezza incomparabili (Signore ascolta2) tenta di distoglierlo dai malati propositi, ma non c’è nulla da fare: il principe corre verso il gong e, nell’esplodere dell’orchestra, evoca l’apparizione della principessa.

Dopo un breve interludio in cui Ping, Pong e Pang ci ragguagliano sul numero dei morti e sullo strazio che rappresenta il capriccio della bella principessa, si apre la scena sulla sala del trono del Palazzo imperiale. Persino l’imperatore, stanco di avere le mani lorde di sangue per il giuramento fatto alla figlia, cerca di mandar via lo straniero, ma dopo tre invocazioni si vede costretto a cedere e chiamare sua figlia al cospetto del giovane. La bella Turandot spiega allora il motivo di tanta crudeltà: in ogni testa di straniero che rotola per aver invano tentato di conquistare la sua mano, ella trova soddisfazione per la morte di una sua antenata avvenuta proprio per mano di uno straniero che l’aveva presa in moglie. Turandot non crede all’amore: è la regina del ghiaccio, pura e inarrivabile.

Dinanzi allo stupore degli astanti, lo straniero snocciola i tre enigmi della principessa uno dopo l’altro, scatenando il più feroce disappunto di lei. Tanto che, pur cinta dal giuramento, tenta di sottrarvisi facendo appello al padre («Figlio del cielo! Padre augusto! No! Non gettar tua figlia nelle braccia dello straniero!»; «È sacro il giuramento!»; «No, non dire! Tua figlia è sacra! Non puoi donarmi a lui, a lui come una schiava, ah no! morente di vergogna! [al principe] Non guardarmi così! Tu che irridi al mio orgoglio! Non sarò tua! No, non voglio!»). È il caso di dirlo: Turandot cerca di giocarsela proprio sporca! Ma l’orgoglioso principe decide di sfidarla, di darle una benché minima possibilità: «Tre enigmi m’hai proposto! e tre ne sciolsi! Uno soltanto a te ne proporrò: Il mio nome non sai! Dimmi il mio nome, prima dell’alba! E all’alba morirò!».

La furia di Turandot si abbatte su Pechino come un gelido vento di tempesta: «Così comanda Turandot: “Questa notte nessun dorma in Pekino! Pena la morte, il nome dell’Ignoto sia rivelato prima del mattino!”». Segue la celeberrima sequenza del Nessun dorma, resa indimenticabile da Luciano Pavarotti che più volte ne ha fatto il simbolo della sua potenza vocale e della sua grande bravura. E, mentre i ministri e il popolo s’appressano supplici all’ignoto principe offrendogli donne, tesori, gloria, in cambio della sua fuga e della loro conseguente salvezza, vengono trascinati in scena Liù e il vecchio padre dello straniero: essi sanno il segreto agognato. Giunge anche Turandot e Liù, che dichiara esser la sola a conoscere il nome dello straniero, viene torturata barbaramente di fronte ad un’incredula e sconvolta principessa che non riesce, nel suo gelo, a comprendere un simile gesto d’amore. È questo un momento altissimo: Liù, l’umile serva, si mostra nella sua fulgida gloria; così possente da eclissare chiunque, persino il nostro eroe. Diviene lei stessa eroina, compiendo il suo cammino fino in fondo e donandosi in un amore pieno e non corrisposto. Come solo le grandi donne delle opere pucciniane sanno fare, ci dà un assaggio della vera purezza di cuore, del coraggio più grande, della potenza più vera.

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Afferrando un pugnale all’improvviso, la bella e dolce Liù, la piccola Liù, così pura ed indifesa eppur potente Liù si toglie la vita, sigillando con il sacrificio estremo il suo amore. Le lacrime si trattengono a stento mentre vediamo passare davanti ai nostri occhi una delle più strazianti e profonde scene che il teatro lirico ci riserva. Tutto sembra perdere d’importanza mentre veniamo trascinati come da un torrente dalle acque rapide eppur ovattate, dolci e amare insieme, verso l’apoteosi dell’opera: il suo momento più solenne, più maestoso, più intimamente sconvolgente. Proprio a Liù vogliamo dedicare l’articolo, a colei che incarna forse meglio di cento altri la vera Potenza del grande che, spesso, si nasconde proprio nei più piccoli. E tanto tributo trova conferma nel coro funebre che segue il monito del vecchio re («Ah! delitto orrendo! L’espieremo tutti! L’anima offesa si vendicherà!»3): la giovane serva viene portata via, verso il luogo della sepoltura, dal popolo riverente, essi vedono il male compiuto e se ne rammaricano mentre Timur, il padre dello straniero, la segue: «Dove vai ben so, ed io ti seguirò per posare a te vicino nella notte che non ha mattino!» «Liù…bontà…perdona! Liù…dolcezza, dormi! Oblia! Liù…Poesia!».

Siamo arrivati al punto clou. Come disse Arturo Toscanini durante la prima assoluta di Turandot alla Scala il 25 aprile 1926: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto».

Il finale dell’opera procede nelle varie versioni (che lasciamo alla curiosità del lettore il piacere di trovare e analizzare), seguendo il racconto da cui è ispirata: colta da un bacio dello straniero Turandot cade preda dell’amore e scioglie il suo gelo. Il principe sa ch’ella oramai è sua per sempre: «Sei mia! Tu che tremi se ti sfioro! Tu che sbianchi se ti bacio, puoi perdermi se vuoi. Il mio nome e la vita insiem ti dono. Io son Calaf, figlio di Timur!». S’aduna la corte: Turandot sa il nome dello straniero: «Padre augusto…Conosco il nome dello straniero! Il suo nome è… Amor!». E l’opera si conclude sulle note di un inno all’amore.

Quest’opera conserva un grande fascino unito a grandi turbamenti per chi si accosta ad assistervi. L’intreccio narrativo, parlando volgarmente, “fa acqua da tutte le parti”… Forse sarebbe stato meglio finirla con il coro funebre di Liù: la cosa sarebbe stata più coerente e più facilmente accettabile. Come può Calaf, appena dopo essere stato testimone di un eccelso sacrificio compiuto per amor suo, dopo aver visto suo padre seguire Liù, la sola donna ad averlo veramente amato, per lasciarsi morire sulla sua tomba, ancora desiderare la maledetta Turandot? In effetti Puccini stesso non era rimasto insensibile al tema: il momento del bacio, che doveva rappresentare il momento più alto dell’opera, il trionfo dell’amore sulla donna di ghiaccio, doveva essere perfetto e magistralmente architettato, uno scoglio non indifferente. Del resto viene quasi difficile pensare che un maestro della tragedia come Puccini, l’architetto di Madama Butterfly, possa davvero aver pensato di concludere uno dei suoi capolavori, forse l’apice di una carriera, con un lieto fine.


Note: 

1. G. Adami, R. Simoni, Turandot, Edizioni Ricordi, Milano.
2. Si veda a proposito l’esecuzione di Leona Mitchell al Metropolitan Opera House (1988), condotta da J. Levine.
3. Si veda sempre la bella rappresentazione del Metropolitan Opera House del 1988.

Autore

  • Ufficialmente il suo nome è Matteo Mario Cesare Costanzo, ma dato che sembra un patrizio d’età tardo romana, vi basterà chiedere di Oscar. Oltre a esperienze nello studio della Giurisprudenza e della filosofia, vive la passione per la musica lirica grazie all’amata zietta, ex cantante del coro della Scala, che adesso gorgheggia all’Auditorium.

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