di Federico Filippo Fagotto
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La mostra su Robert Capa ospitata allo Spazio Oberdan e le foto di Theodor Kofler esposte all’Università degli Studi di Milano: un occasione per vedere due diverse interpretazioni della fotografia di guerra, attraverso il pensiero di Ernst Jünger.
«Mentre disponiamo di strumenti ottici straordinari, come la fotografia, l’arte della descrizione di viaggio è così decaduta»[1] – borbottava il filosofo Ernst Jünger parecchi anni fa. D’altronde, non si campa fino a centotre anni se non si è un po’ biliosi, e nel ’34 di motivi per esserlo, in Germania, ce n’erano giusto un paio.
Tuttavia, stringi stringi, la ragione del suo interesse per la filosofia della fotografia non era uno sfizio, ma il profondo studio dello strumento con cui si esprime la nuova arte di descrivere gli eventi. Pur sempre eventi scelti però, orchestrati, teatrali talvolta, ed estranei al flusso del racconto di viaggio. Persino il Nobel per la letteratura, quell’anno, era andato a un drammaturgo.
Che ci si vuol fare? Tanto meglio per noi (era Pirandello).
Proprio in quel periodo, però, i bisogni nati in un clima di guerra hanno ridato – oltre alle tante rogne – lo stesso ritmo ai fatti della Storia e alle tante storie disseminate qua e là, prive della custodia dei romanzi. E il romanziere deve sgobbare parecchio, ormai, perché l’ispirazione non la si acciuffa più nelle fantasie. Hemingway se la va a prendere in Spagna, durante la guerra civile. Qui incontra proprio un bel tipo, uno convinto che «la vita è quella dell’esercito, perché consiste solo di essenzialità»[2].
È Robert Capa, il fotografo di guerra, il quale visse i contatti con l’esercito e i servizi sul campo come «una grande famiglia»[3] cui scattare belle foto ricordo. Anche noi abbiamo un ricordo di lui, proprio qui a Milano, presso lo Spazio Oberdan, almeno fino al 26 aprile. Quando ho visto la mostra a lui dedicata, avrei dovuto chiedere ad Amedeo (il proiezionista della Cineteca che ha scritto per noi questo mese) se anche Capa è uno di quei Soldati non-soldati, che stanno in prima fila, senza arma alcuna all’infuori del fedele “fucile fotografico”[4].
Sempre Milano custodisce poi un’altra mostra, piccola certo, quasi timida. Si entri per l’ingresso principale di Festa del Perdono, poi subito a destra verso il cortile Farmacia. Una volta arrivati non si capirà neanche di essere all’interno di un’esposizione, ma così è. Ci sono gli scatti di Theodor Kofler, rinvenuti in un album nascosto della prolissa biblioteca dell’egittologo francese Alexandre Varille, donata nel 2001 all’Università da una mecenate milanese.
Fra i due – Capa e Kofler – cadrebbe bene un confronto, ma a parte che accostare i loro nomi sembra il tentativo di un proverbio o uno slogan da Cabaret, e poi nemmeno un Plutarco in splendida forma potrebbe ignorare le loro differenze quasi simboliche. Ungherese l’uno, Austriaco l’altro. Da queste due anime del vecchio Impero tutto viene di conseguenza: il primo fu facilitato dalla genialità dilettantesca dei magiari, dalla loro ignoranza di cosa sia il pericolo e del fatto che per vivere occorra qualche soldo; il secondo sembra invece malinconico ancor prima di un’esperienza che lo giustifichi, perché è nella vista ferma che riconosce i tratti dell’arte, e non in “vista” di essa.
Certo, fanno pur sempre lo stesso lavoraccio, quindi vanno di qua e di là come commessi viaggiatori specializzati in orrori dell’umanità: Kofler li incontra in Egitto, in Kenya e in Tanzania, Capa un po’ dappertutto: Germania, Spagna, Italia, Cina, Vietnam e chi più ne ha ne metta. Sarebbe romantico pensare che nel 1952 si siano incrociati. Erano senza dubbio nel posto migliore per incontri di regia: la Parigi del dopoguerra. Per loro sarebbe stata l’ultima occasione, tra l’altro, perché nel 1954 Capa verrà raggiunto da una mina sul delta del fiume rosso, in Vietnam, mentre Kofler lo seguirà tre anni dopo, vicino alle più miti acque del lago Vittoria in Tanganika. Peccato che, per età, poteva essergli padre. In fondo, suo figlio Wilhelm aveva solo un anno più di Capa.
L’incontro che ci interessa, però, è di quelli a distanza. L’appuntamento lo fissa la guerra, con quel suo brutto vizio di scoppiare, senza essere nemmeno la stessa nei due casi. Ma si sa: le guerre si assomigliano tutte. Per Capa si parla dei fatti del ’39, per Kofler invece della dichiarazione dello stato di belligeranza da parte del governo egiziano in concomitanza con l’accendersi, nel 1914, del primo conflitto mondiale. Entrambi furono costretti ad un falso esilio. Kofler, per essere prigioniero in un campo di internamento a Malta, se la passa fin troppo bene e fa foto a più non posso. Capa invece, emigrato negli Stati Uniti e pieno di ben riposte speranze nella libertà, trova invece miseria, frustrazione e diventa ostaggio della redazione di Life e dei primi noiosi reportage che gli impone. Per non parlare delle amicizie di lustro, attinte dal mondo di Hollywood, che descriverà come «la più grossa merda che abbia mai calpestato!»[5].
– Poverino… – direte voi, – fossero tutti così i problemi – . Ma proprio qui sta l’abisso fra i due, o meglio, fra le loro situazioni contingenti al momento in cui eruppero i due immani conflitti del Novecento. In corso d’opera, tuttavia (e qui trasecoliamo), ecco profilarsi l’inversione dei ruoli, quasi lo stesso passaggio di consegne descritto dall’I King. Kofler trasforma la prigionia nell’otium che gli è utile per gestire, a distanza, la sua rivista fotografica Cairo Studio, e sfrutta il reclusorio come base strategica da cui lanciare delle spedizioni aeree allo scopo di fotografare le piramidi di Cheope e il tempio di Luxor. Capa, al contrario, decide di gettarsi nella mischia e seguire l’itinerario degli alleati: dagli Stati Uniti all’Inghilterra, poi in Tunisia e (sfiorando proprio Malta), su verso lo sbarco in Sicilia. Ci prende gusto, forse, e infatti arriva ad una decisione troppo grande persino per lui: accompagnare l’operazione ad Omaha Beach nel famoso D-Day, il giorno dello Sbarco in Normandia. Quanto andrà vicino alla morte, ce lo dicono le sue foto: le uniche sfocate in anni di istantanee uscite intonse dai frangenti più concitati. L’ha detto lui stesso: «Se le tue immagini non sono abbastanza buone, è perché non sei stato abbastanza vicino»[6]. Il ruolo del comandante che combatte in prima linea, descritto nell’esagramma, gli calza a pennello. Anche le foto di Kofler, in parte, vennero mosse, ma soltanto per i sobbalzi dell’aereo che sorvolava la tranquilla piana di Giza.
Singolare, in entrambi, il rapporto con l’aviazione. Se vi sfiora il pensiero di Saint-Exupéry, rileggetevi pure il nostro articolo sulla Lettera ad un ostaggio. Anche lì troverete il ruolo dell’esilio e l’immagine della guerra negli occhi di un artista. Kofler sembra condividere questo sentimento, ma lo consuma ad una certa distanza. Sale perciò a bordo del biposto Nieuport VI G di Marc Bonnier, decollato dall’Aérodrome di Heliopolis verso i tesori d’Egitto. Capa invece – sarà per il viaggio atlantico su una nave che trasportava velivoli americani in Inghilterra, oppure per la vista dei bombardieri tedeschi sui cieli di Londra – preferisce non rimanerci troppo a bordo dell’aereo e di farsi paracadutare direttamente nella gola dell’inferno in compagnia di due calibro 35 (le Contax reflex col rullino da 36 pose ovviamente). Se ne salveranno soltanto undici inestimabili scatti.
Morale della storia. Nella guerra, ancora una volta, «le tendenze conservatrici e quelle rivoluzionarie scorrono fianco a fianco»[7]. Se a dirlo è il solito Jünger che, come detto, si rivolge subito allo sguardo fotografico per mettere a fuoco alcuni problemi, ci viene voglia di reinterpretare anche i ruoli dei nostri due cari reporter. Capa sarà il rivoluzionario, a questo punto, quello che non smette di percuotere la realtà a colpi di click dal momento che non accetta la sclerosi della guerra.
La guerra è come un’attrice che sta invecchiando ed è sempre meno fotogenica [8].
Sarà lui, ad esempio, il primo a far rinsavire Ingrid Bergman dall’apatia artistica, esortandola a scrivere a Rossellini per mettersi al suo servizio, tale era stata in lei, infatti, l’ammirazione per Roma città aperta, un monumento intriso di realismo bellico. Kofler, invece, è il conservatore: nel bel mezzo del denso pathos storico bisticcia con l’immanenza e ritorna alle opere immortali del passato, forse per paura che siano in pericolo. Lo strumento ottico allora – che di recente è stato eletto testimone della distruzione programmata di straordinarie opere d’arte – serve invece per dare una mano all’eternità. È il «processo di “anestetizzazione” che opera attraverso lo sguardo fotografico», se vogliamo dar retta a ciò che Maurizio Guerri dice di Jünger in un capitolo della Filosofia della fotografia. Ma se esso, come aggiunge, «modifica anche il modo in cui gli eventi assumono senso»[9], allora le famose istantanee di Capa – che fermano l’attimo della morte come nel Miliziano colpito a morte (1936) – e i soggetti di Kofler, arzilli anzianotti di tremila anni, arrivano quasi a combaciare.
È il contrappeso fra il Mondo mutato (die veränderte Welt) – così battezzato da Jünger nel suo “Sillabario per immagini” dedicato, assieme ad Edmund Schultz, all’arte della fotografia e racchiuso nei suoi Scritti politici e di guerra – e il compito implorato a quest’ultima di catturare e insieme accogliere la guerra stessa per addomesticarla. “Fotografare” (photographieren) veniva detto un tempo aufnehmen, da nehmen nel senso di ‘prendere’, ‘impossessarsi’.
«Già soltanto nell’atto dell’inquadrare (Akt der Aufnahme)» – concludiamo una volta per tutte, e poi basta – «si compie una valutazione (eine Wertung)»[10]. È questo (e non perché è bella) a rendere la fotografia un’arte.
Ultima cosuccia, tanto per mettere i puntini sulle “i” al caro Jünger (forse dovrei dire le Umlaut sulle ü in realtà): si ricordi che alla morte di Capa, ad ammettere che la sua macchina fotografica «coglieva l’emozione e la tratteneva»[11] è stato, guarda caso, proprio un romanziere, il premio Nobel John Steinbeck, lo stesso a cui – in un uno di quei libri nient’affatto decaduti – bastò una sola frase, scritta comodamente allo scrittoio di casa propria, per far capire che il divenire della storia può convivere coi nostri tentativi fotografici, maldestri e affascinanti di ghermirla:
Forse non c’è mai cambiamento in nulla. Forse le cose immutevoli passano soltanto [12].
Note:
- Ernst Jünger, Foglie e pietre, tr. it. di Flavio Cuniberto, Adelphi, Milano, 1997, p. 12.
- Alberta Gnugnoli, Robert Capa, Art e Dossier, Giunti Editore, Milano, 2010, p. 2.
- Ibidem.
- Quanto poco un fucile che scatta fotografie, anziché sparare, andò a genio ai primi osservatori, basti il soprannome che i napoletani diedero al suo inventore, Étienne-Jules Marey (1830-1904), fisiologo e inventore francese: lo “scemo di Posillipo”.
- Ivi, p. 39.
- Ivi, p. 27.
- Ernst Jünger, Foglie e pietre, dal cap. “Fuoco e movimento”, cit., p. 81.
- Alberta Gnugnoli, Robert Capa, cit., p. 37.
- Filosofia della fotografia, a cura di M. Guerri e F. Parisi, Cortina Editore, Milano, 2013, p. 54.
- Ernst Jünger, Edmund Schultz, Il mondo mutato, a cura di M. Guerri, Mimesis, Milano, 2007, p. 8.
- Alberta Gnugnoli, Robert Capa, cit., p. 47.
- John Steinbeck, Al Dio sconosciuto, tr. it. Eugenio Montale, Mondadori, Milano, 1982, p. 68.