di Tommaso Megale
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Matajuro Yagyu era figlio di un famoso spadaccino. Suo padre, convinto che l’attitudine del figlio fosse troppo scarsa per fargli raggiungere la maestria, lo disconobbe.
Così Matajuro andò sul Monte Futara e là trovò il famoso spadaccino Banzo. Ma Banzo confermò il giudizio del padre. “Tu vuoi imparare a maneggiare la spada sotto la mia guida?” domandò Banzo. “Ti mancano i requisiti indispensabili”.
“Ma se lavoro sodo, quanti anni mi ci vorranno per diventare maestro?” insistette il giovane.
“Il resto della tua vita” rispose Banzo.
“Non posso aspettare tanto” disse Matajuro.
“Se accetti di darmi lezione, sono pronto a sottopormi a qualunque fatica. Se divento il tuo devotissimo servo, quanto tempo ci vorrà?”
“Oh, dieci anni forse” disse Banzo addolcendosi.
“Mio padre si sta facendo vecchio e presto dovrò prendermi cura di lui” continuò Matajuro. “Se lavoro ancora più assiduamente, quanto tempo mi ci vorrà?”
“Oh, forse trent’anni” rispose Banzo.
“Ma come!” disse Matajuro. “Prima hai detto dieci anni, e ora trenta! Accetterò qualunque privazione pur di imparare quest’arte nel tempo più breve!”
“Be’,” disse Banzo “allora dovrai restare con me settant’anni. Un uomo che ha tanta fretta di ottenere dei risultati raramente impara alla svelta”.
“E va bene” dichiarò il giovane, comprendendo infine che gli stava rimproverando la sua impazienza. “Accetto”.
Matajuro ebbe l’ordine di non parlare mai di scherma e di non toccare mai una spada. Cucinava per il suo maestro, lavava i piatti, gli rifaceva il letto, puliva il cortile, curava il giardino, tutto senza che si parlasse mai di scherma.
Passarono tre anni. Matajuro continuava a lavorare. Pensando al proprio avvenire era triste. Non aveva ancora cominciato a imparare l’arte a cui aveva votato la propria vita.
Ma un giorno Banzo scivolò alle sue spalle e gli diede un colpo terribile con una spada di legno.
L’indomani, mentre Matajuro stava cucinando del riso, Banzo tutt’a un tratto gli saltò di nuovo addosso.
Da allora giorno e notte, Matajuro dovette difendersi dagli assalti inaspettati. Non c’era giorno, non c’era momento che non dovesse pensare al sapore della spada di Banzo.
Imparò così in fretta che la faccia del suo maestro era raggiante di sorrisi. Matajuro divenne il più grande spadaccino del paese.¹
In-comprensione
Leggendo il lieto fine di questa storia ci rassicuriamo e possiamo iniziare a farne nostri i contenuti partendo con animo soddisfatto. Matajuro ci è riuscito, e anche velocemente!
Non gli è mancata la determinazione ed è arrivato in fondo a ciò che doveva fare. Aspettative familiari e personali lo avevano portato a fare una scelta, ma poi ha dovuto abbandonare fretta e desiderio di ottenimento e – dopo poco tempo – ha raggiunto il risultato.
Ne potremmo dedurre che è possibile inserire una pratica d’esercizio spirituale all’interno di un contenitore che la metta al servizio di un obbiettivo da raggiungere. Ad esempio possiamo meditare per stare meglio in termini psicofisici, ma è importante che mentre si pratica l’esercizio non si cerchi di fuggire la condizione di sofferenza contingente. Oppure è possibile inserire un percorso di meditazione all’interno di un’ azienda e, garantendo una qualità di vita più alta ai dipendenti, aumentarne i fatturati. Eppure qualcosa non quadra, l’attività di attenzione al momento presente sarebbe un’ interessante articolazione di un pensiero che comunque è diretto da qualche altra parte.
Banzo ci ricorda che per diventare maestro è necessario il resto della vita, non si tratta di una condizione che si raggiunge ed, evidentemente, nemmeno un modello a cui tendere. Forse ci è più facile convenire che possa essere il pensiero desiderante l’articolazione successiva di una mente in aderente continuità all’esistente, ma comunque la questione non è semplice.
La morale della favola sembra essere contraddittoria: «Fiducia, pazienza, assenza di aspettative, sono le doti necessarie a raggiungere l’obiettivo». Sì, ma quale? E prima ancora di chi?
Se l’obiettivo ci fosse, ma non fosse il nostro, o per certi versi fosse solo nostro, figlio di una visione piccola incentrata sul dovere e in relazione solo con le poche persone che conosciamo e ai nostri interessi? Se facendo quello a cui si era destinati, dalle contingenze ma anche dai propri desideri, ci si trovasse all’interno di un contesto in cui vivere ci è di estrema difficoltà, se non proprio di sofferenza? Forse sarebbe arrivato il momento di lasciar fluire le nostre aspettative, rinnovandole o anche trovandone di nuove, e tornare in contatto con noi stessi.
Se proiettati nel mondo del lavoro, in vista che le cose migliorino in futuro, accettiamo condizioni da sfruttamento, forse è il caso pensare a qualcosa di meglio e allo stesso tempo trarre dal presente la direzione in cui andare, adesso.
Assaggiare il sapore della spada di Banzo, manifestare Il morso che spezza.
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Note:
- Questa storia appare in traduzione italiana per la prima volta nel 1973, ad opera della casa Editrice Adelphi nel libro 101 storie zen, di Nyogen Senzaki e Paul Reps.