di Gianluca De Rosa
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Da un esagramma cinese antico di millenni all’odierno articolo 163 sulla sospensione condizionale della pena. La capacità del giudice di dosare inflessibilità e attesa somiglia alla saggezza orientale o alla moderna lungimiranza di sapere quali sono le conseguenze del punire?
“Una volta eletto il cenno castigatore, la mano va fermata”
Non so quanti lettori, spinti da una mia semplice esortazione, andrebbero di buon grado a leggere l’articolo 163 del codice penale; aprire codici e leggere articoli non è di per sé un’esperienza elettrizzante.
Ma poniamo il caso che stiate rimettendo a posto la libreria di un vecchio zio avvocato – chi, al giorno d’oggi, non ha uno zio avvocato? – e che per caso vi cada dalle mani un volume, e che per avventura quel volume sia proprio un codice penale, e che, combinazione!, quel codice, nell’impattare col pavimento, si apra precisamente al titolo sesto del primo libro.
In quel caso, sareste fortunati: potrete scorrere qualche pagina ed accorgervi che l’argomento lì trattato è l’estinzione del reato e della pena. Una mente polemica può chiedersi che senso abbia, con tutta la fatica che si fa a portare avanti i processi, il trovarsi tra capo e collo una buona ventina di articoli che mirano ad estinguere i reati e le pene. Effettivamente per giungere alla fine di un procedimento penale di norma sono state svolte delle indagini, sono stati notificati gli atti alle persone coinvolte, sono stati chiamati in aula i testimoni, i cancellieri, i periti, i consulenti e le parti, si sono scritte e studiate tante carte da causare un parziale disboscamento. Poi hanno il coraggio di venirci a dire che è il caso di liberare tutti i delinquenti così laboriosamente condannati.
Se però si mettono da parte le facili indignazioni e si studia un po’ di più – attività rarissime, al giorno d’oggi – si possono apprezzare alcune istanze intelligenti, tenute a mente dal nostro legislatore (giova sottolineare che “legislatore” è un nome buffo che i giuristi danno in generale a chi fa le leggi: nonostante sia un compito che spetterebbe al parlamento, più di recente sono i governi ad avere una certa sindrome di protagonismo e si ritrovano a rubare le competenze altrui).
Queste istanze intelligenti sono di vari tipi; alcune sono dette “di economia processuale” e mirano ad evitare la celebrazione di processi inutili. Ad esempio, ci si può domandare che senso abbia condannare qualcuno che, spirando, ha già lasciato questa valle di lacrime. La risposta è “nessuno”; ed infatti l’articolo 150 del codice penale ci dice che la morte del reo, se avviene prima della condanna, estingue il reato, quindi è come se quest’ultimo non fosse mai esistito. Se l’imputato ha causato un danno a qualcuno col suo comportamento, gli eredi del defunto saranno chiamati a risarcirlo; ma questo accadrà in un giudizio civile separato, che a noi penalisti non interessa. Il nostro legislatore sfoggia buona logica e un certo senso pratico.
Altri articoli si occupano comunque di economia, ma non solo processuale. Se si è perseguiti per dei fatterelli di poco conto, che sono puniti solo col pagamento di una somma di denaro, si possono fare due cose che a Milano vanno per la maggiore: “cacciare un po’ di grano” e “chiuderla lì”, senza dover perdere tempo e finanze con udienze e avvocati, rischiando poi di dover versare cifre addirittura maggiori. I giuristi si prodigano in nomi bizzarri, e hanno chiamato “oblazione” questa faccenda, specificando che pure questa, oltre a procurare qualche soldino alla Giustizia, estingue il reato, e si torna amici come prima.
Ma arriviamo quindi al punto focale degno di cotanta introduzione: la sospensione condizionale della pena. L’articolo 163 che ho citato all’inizio ci racconta che un giudice, condannando il suo imputato a una pena che sia inferiore a due anni di reclusione (o pene pecuniarie equivalenti) “può ordinare che l’esecuzione della pena rimanga sospesa” per un termine di due o cinque anni; se nel periodo di sospensione l’imputato non commette altri reati, quello per cui è stato condannato si estingue, e anche in questo caso è come se non fosse successo.
Per poter sospendere la pena, il giudice deve appurare che sussistano due altri requisiti: l’imputato deve aver riparato i danni che ha eventualmente commesso e il giudice deve già presumere che il reo si asterrà dal delinquere ancora.
Qui, di economia, quasi non ce n’è. Il legislatore non ha scritto la normativa sulla sospensione della pena pensando a chissà quale risparmio di tempo, soldi o attività, ed anzi al contrario somiglia ad uno spreco: questi articoli sembrano vanificare tutto il lavoro delle forze dell’ordine, dei pubblici ministeri e delle procure e mettere in pericolo la pubblica sicurezza, in ultima analisi non infliggendo castighi a chi li meriterebbe. Si perdono tempo, fatica e denaro, così dando ragione a quella mente polemica che si indignava per questo scialacquare il danaro pubblico.
Ma di fronte al dubbio se sia giusto non punire chi ha commesso un reato, c’è una certezza: punirlo ha conseguenze gravi. Le detenzioni carcerarie provocano quello che si definisce un effetto criminogeno; chi le sconta ne esce sempre peggiorato, da un lato perché stare a stretto contatto con dei delinquenti è il modo migliore per imparare la malavita, dall’altro perché una volta usciti di prigione è davvero difficile reinserirsi nella società, visto che una condanna sul casellario giudiziale (quello che volgarmente è chiamato “fedina penale”) è uno stigma ostativo all’assunzione per la grande maggioranza dei lavori; in più i carcerati rischiano di coltivare una maggiore sfiducia nel sistema giudiziario e nell’operato delle forze dell’ordine, altre possibili cause di un avvicinamento al crimine [1].
Sarò un buonista, ma non credo a chi dice che le persone delinquano per natura. Chi si trova a sbagliare a tal punto da ritrovarsi coinvolto in un processo penale generalmente ha qualcosa di “rotto”: che sia dovuto alla famiglia o agli spazi in cui è cresciuto, che sia dovuto alla povertà o all’ambiente in cui il reo si ritrova e dove si accorge che la delinquenza è la via più semplice o la più praticata, che sia dovuto al rigetto per dei comportamenti imposti e sentiti alieni o all’odio per una determinata persona, categoria, razza, religione o sesso, c’è sempre un qualcosa che già si è crepato, in chi compie gesti così drammatici. Il “morso che spezza” dovrebbe evitare di raddoppiare la sofferenza patita e di aggravare la situazione.
Così il denaro, l’oro che lo Stato investe per le indagini e le carte e gli stipendi di tutte le cariche il cui compito è quello di reprimere la criminalità, nonché la fatica e il tempo di queste non vengono buttati via, se il giudice decidere di sospendere la pena: proprio come nel kinstugi di cui Federico parla nell’introduzione, anche quest’oro va a stuccare le crepe e le fratture nell’indole del reo, per evitare che queste si aggravino.
La sospensione condizionale della pena non è il semplice manifestarsi della convinzione – piuttosto banale – che vuole dare a tutti una seconda possibilità, chissà su quali basi. È la saggezza di sapere quali sono le conseguenze di punire chi ha sbagliato, che spesso consistono nell’aggiungere del dolore a del dolore e rompere ancora di più qualcosa che è già in pezzi [2].
Per approfondire il rapporto fra La Tigre di Carta e il mondo del diritto, consigliamo gli articoli di Giovanni Amedeo Conte e Wojciech Żełaniec
Note:
[1] Una lettura interessantissima a riguardo è CAMPANA D., Condannati a delinquere? Il carcere e la recidiva, Franco Angeli, Milano 2009.
[2] Altri meccanismi con la stessa ragion d’essere sono il perdono giudiziale per i minorenni o la non menzione della condanna nel casellario giudiziale