di Federica Griziotti
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Nei famosi Tagli di Fontana, in congiunzione tra pittura e scultura, la giusta misura nel superare l’ostacolo imposta dall’I King si ottiene quando al taglio, che svolge la funzione di “morso che spezza”, si aggiunge un’attesa calibrata, che dà il nome a questa serie di opere.
«Io volevo sì superare la figura, superare il disegno. Ma per superarli credevo mi fosse necessario prima di tutto conoscere a fondo queste forme tradizionali. Quando sono entrato all’accademia […] volevo dare alle mie ricerche una base classica»1.
Lucio Fontana ha ventotto anni quando, nel 1927, arriva a Milano per frequentare l’Accademia di Belle Arti di Brera. La sua carriera di scultore aveva preso le prime mosse a Rosario de Santa Fe, sua città natale, figlio di uno scultore italiano, Luigi, dal quale eredita la passione per la scultura della ceramica, che è la fortuna della ditta di famiglia Fontana y Scarabelli.
All’Accademia di Brera, in quegli anni, sono illuminanti le lezioni di Adolfo Wildt, professore e scultore di forte influenza simbolista, che pone l’accento del suo insegnamento su criteri anti-realisti nell’approccio alla creazione dell’opera e che valorizza la ricerca del concetto e la tensione al trascendente nella figura. Facile da studiare, un po’ meno da tirare fuori da un blocco di marmo, o da uno stampo per gesso… Per nostra fortuna Lucio Fontana è uno studente sorprendentemente brillante.
Gli anni Trenta sono per lui un decennio di studio della storia dell’arte, di ricerca tra Milano e Parigi; e sono gli anni dei capolavori che segnano le prime tappe del processo di astrazione che sta alla base di tutta la produzione di Fontana: l’Uomo Nero del ‘30 è l’assertiva dimostrazione di una strada intrapresa in maniera individuale, non più dietro le orme del proprio maestro: una colata di catrame nero è versata e poi graffiata sulle forme nette di un pensatore primitivo. La ricerca scultorea passa poi per la meravigliosa serie degli ori: Signorina seduta 1934 – Il Fiocinatore 1933-34 – Ritratto di Teresita 1939, citazioni dei cieli medievali, degli sfondi delle icone sacre, dei mosaici bizantini, radici profonde dell’arte occidentale – e in queste forme torna a farsi sentire la lezione wildtiana. Contemporaneamente nascono i barocchi: sculture figurative, violentemente ritmiche e chiaroscurali. La dichiarazione di intenti prosegue con la creazione delle tavolette graffite: la monocromia del gesso ci suggerisce la volontà di astrazione e ad essa si unisce il graffio, il segno-eredità dell’automatismo surrealista. Una summa della storia dell’arte riletta in chiave personale.
Quando Fontana torna in Argentina, durante gli anni della guerra, diventa docente di arti plastiche all’Accademia di Buenos Aires e presso l’Accademia di Altamira, dove segue la redazione del famoso Manifiesto Blanco, un testo che esprime la volontà di andare oltre l’arte contemporanea, la materia, superando la finitezza dei mezzi espressivi correnti – in realtà è un testo scritto dai suoi allievi e seguaci. Nel periodo argentino Fontana non dimentica le frequentazioni con gli amici della Galleria del Milione o dell’avanguardia architettonica milanese, che lo avevano ispirato a creare opere che utilizzassero i vuoti e i pieni come elementi basilari della creazione. Infatti al suo rientro nella fervente vita milanese, nel ’47, prende vita la sua personale teoria: lo spazio e il vuoto devono diventare i protagonisti dell’opera; ma come si può rappresentare lo schiudersi del vuoto, per mezzo della materia? Bell’ostacolo la materia, si sa. Nel primo manifesto del Movimento spazialista, Fontana sottolinea l’importanza dell’antimateria e del gesto; nel secondo manifesto dichiara quindi la necessità di una nuova forma espressiva che non sia più «solo pittura» o «solo scultura», ma una sintesi che permetta l’espressione dello spazio, quello dell’esistenza pura, libera dalla materia. La sostanza va affinandosi: dal catrame al gesso e alla terracotta, e ora alla tela. Una tela bianca bidimensionale è un ostacolo agli occhi di uno scultore che, all’apice della sua elaborazione, ha deciso di voler rappresentare lo spazio e il vuoto, ma è allo stesso tempo la sfida di un uomo che «quando si accorge di aver raggiunto il pieno dominio della materia […] castiga la materia stessa, riduce ancora il suo linguaggio ai mezzi più essenziali per un bisogno di liberazione»2.
Ecco comparire le prime tele forate (1949-50), i Concetti spaziali su tela nella loro prima forma: le serie dei Buchi, il primo tentativo di sintesi del linguaggio creativo. I fori eseguiti con un punteruolo, ugualmente sul davanti o sul retro della tela, creano una netta sensazione di istintività affiancata alla ricerca di effetti chiaroscurali, sottolineati da Fontana per mezzo della luce: l’idea era infatti che queste opere fossero esposte retroilluminate.
Ma procediamo di qualche anno, arriviamo al 1959 e soffermiamoci, come ci suggerisce l’I King, sulle Attese. È nei famosi Tagli di Fontana che la congiunzione tra pittura e scultura collide con la volontà di celebrare lo spazio del vuoto, della creazione e dell’esistenza pura; rispetto ai Buchi, Fontana qui segue un percorso profondamente meditativo, ritmico; il taglio è pulito: ha un inizio e una fine chiari, chirurgici. La gestualità è calibrata, definitiva. Ed è in questi termini che il consiglio di utilizzare «la giusta misura nel superare l’ostacolo», attinto dall’I King, si esplica magistralmente: dopo un periodo di incubazione dell’idea, Fontana giunge ad una risoluzione irrevocabile, ermetica, profondamente espressiva ma allo stesso tempo precisamente calcolata. L’idea si rende visibile in un gesto che è insieme incisione rupestre, monocromo, automatismo surrealista, e la base dell’happening: come testimonia la celebre foto di Ugo Mulas, l’importanza sta nell’atto creativo, che è l’attimo immortalato dal fotografo. Il taglio è forma senza quasi essere materia, ma soprattutto, in questa insolita veste ermeneutica, è il segno del morso che spezza.
Concetto Spaziale, Le Chiese di Venezia
Lucio Fontana, 1961. Olio su tela. Quest’opera, che si distingue dai tagli, sembra suggerire ancor di più l’idea di qualcosa che si spezza.
Ma perché il titolo Attese? L’attesa è una condizione in cui il tempo sembra non esistere o essere infinito, e porta con sé la proiezione verso il futuro che è frenetica gioia e contemporaneamente terrore, unione di due opposti, esattamente come «la luce passa nell’area del taglio dal suo tono massimo allo zero, in una sintesi radicale del problema del chiaroscuro»3. È in questa chiave interpretativa che al museo del ‘900 troviamo le attese di Lucio Fontana accostate al capolavoro futurista di Boccioni Quelli che restano: esili figure nere si stagliano su uno sfondo quasi monocromo, verde. La dimensione atemporale in cui sono intrappolate queste figure è l’attesa: il quadro infatti è la parte finale di un trittico composto da Gli addii, e Quelli che vanno, e comunica intensamente il senso di mancanza e rassegnazione che abbatte i protagonisti, vittime di un addio, schiacciati da una pioggia monocroma verde speranza. E se dall’I King impariamo che «attendere non è vano sperare», specularmente «sapere di non aver più nulla da sperare non ci impedisce di continuare ad attendere»4.
Se state ancora pensando «beh un taglio posso farlo anch’io», siete i benvenuti, ma per falsificare perfettamente un Fontana ricordatevi di apporre delle scritte nonsense con la sua grafia sul retro della tela, come faceva il maestro, per distinguerle dalle tante imitazioni, un esempio, tratto da una delle Attese: «La rivoluzione dei giovani è sempre valida».
Note:
1. B. Rossi, Dialogo con Lucio Fontana, settimo giorno, 22 gennaio 1963, in P. Campiglio, Fontana, Giunti, Firenze – Milano, 2008, p. 9.
2. P. Campiglio, Fontana, Giunti, Firenze – Milano, 2008, p. 33.
3. G. Dorfles, A. Vettese, Storia dell’arte, Atlas, Bergamo, 2006, p. 329.
4. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, vol. II, All’ombra delle fanciulle in fiore, Bur, Milano 2006, p. 272.