di Martina De Martino
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Una donna in fuga finisce nelle fauci di un paesino assai poco ospitale, che la “divora” e sfrutta come fosse un oggetto, un ostacolo. Tuttavia, ad essere spezzate saranno le vecchie convinzioni e i chiusi valori morali della piccola società descritta dal film di Lars Von Trier.
Sono diverse le ragioni per le quali il film Dogville di Lars Von Trier del 2003 viene considerato un’opera decisamente singolare e unica nel suo genere. Ciò che il regista danese ha realizzato con questa pellicola è una combinazione terribilmente affascinante di cinema, teatro e letteratura, della quale potremmo azzardarci ad affermare non si trovino precedenti altrettanto efficaci. L’intero film si svolge in un unico spazio, che differisce da ogni comune palco teatrale solamente per la mancanza di un luogo predisposto per il pubblico seduto in sala: le case sono definite da linee di gesso sul pavimento, non ci sono mura, non ci sono porte, l’arredamento delle stanze è a dir poco essenziale.
L’identificazione tra l’occhio dello spettatore e le lenti della cinepresa, così tenacemente argomentata da gran parte degli autori che si sono dedicati alla teoria del cinema, non trova riscontro in uno spazio dove la camera si può muovere liberamente, sicuramente non accolta ma allo stesso tempo non rifiutata dagli abitanti della cittadina. Questa narrazione spezza ogni tentativo di definizione di ciò che possa essere privato e pubblico, lasciando allo spettatore la libertà di indugiare indiscretamente su attimi di vita che solo per i personaggi è confinata alla realtà della propria casa. Ma l’I King ci chiede di parlare del ‘morso che spezza’, e dilungarci sulle qualità stilistiche del film non aiuta ad affrontare questo compito. Proviamo invece a concentrarci sulla trama.
La storia di Dogville e dei suoi protagonisti viene narrata da una voce fuori campo onnisciente, che, come nelle migliori narrazioni fiabesche, introduce nel prologo la “triste storia della cittadina di Dogville”, per poi narrarne capitolo per capitolo le vicende singolari.
La bellissima Grace, in fuga dalla città e dai suoi gangster, finisce per caso nel villaggio di Dogville, dove incontra Tom, aspirante scrittore, auto-ertosi a guida morale e filosofica del paesino. Il giovane sta perseguendo l’arduo obiettivo di mostrare ai suoi concittadini in che misura essi abbiano dimenticato come accogliere e ospitare apertamente. A detta di Tom – Thomas Edison Jr, a voler esser precisi, e non a caso – , il problema dell’uomo è l’incapacità di ricevere, e per portare alla luce questa manchevolezza, è necessario l’ausilio di un’illustrazione. Quello di cui Dogville ha bisogno è un “regalo”, e l’arrivo di Grace diviene lo strumento per realizzare questa illustrazione, il regalo tanto sperato.
Ma accettare un ospite sconosciuto in casa propria è sempre un rischio, ed è quindi necessario che Grace offra qualcosa in cambio. Le vengono dunque concesse due settimane di prova, per farsi accettare dalla comunità; in cambio, la donna è disposta ad offrire ore di lavoro fisico, per sopperire a quei compiti che nella vita di ciascuno non è veramente necessario che qualcuno assolva, perché nessuno, in realtà, ha bisogno di nulla. Le due settimane passano, e Grace ottiene l’approvazione e l’accettazione della piccola comunità, assolvendo i suoi compiti con costanza e dedizione. In breve, però, la percezione degli abitanti di Dogville di quale sia il rischio che corrono nel nascondere la fuggitiva aumenta, e di conseguenza i compiti a lei affidati sono sempre più gravosi e offensivi, fino a sfociare in ripetute violenze sessuali e maltrattamenti. In stato ormai di completa schiavitù, Grace viene umiliata definitivamente con l’imposizione di una catena al collo, perché le sia impedito ogni tentativo di fuga.
Nel corso della narrazione seguiamo quindi l’evolversi delle due parti in gioco: da un lato la cittadina, dall’altro il suo ospite, l’elemento estraneo, l’altro, ovvero Grace. Come uno stesso dei suoi (peggiori) abitanti afferma, questa città è marcia sotto quella sua fragile superficie di apparente ordinarietà; ma, aggiunge, d’altronde le persone sono le stesse ovunque: animali ingordi che aspettano solo di essere sfamati fino al giorno in cui le loro pance gonfie scoppieranno. E cittadine come Dogville non sono altro che enormi fauci aperte, che aspettano di essere imboccate, che lasciano passare il tempo nell’incessante e monotono ruminare dei giorni che passano, finché qualcosa non si intromette tra i loro denti.
E Grace è proprio quel qualcosa che interrompe improvvisamente la regolare masticazione della tediosa quotidianità della città: inaspettatamente e inconsapevolmente finisce in mezzo ai suoi denti, e chiede nulla di più che essere accolta e assorbita dalla comunità. Basta poco però perché la sua presenza inizi ad essere vista come un ostacolo, come un’intromissione indesiderata, e di conseguenza viene masticata, spezzata, logorata. In un attimo Grace è divenuta, infatti, un “bene consumabile”: viene usata da bocche e denti, consumata come proprietà e come oggetto, finché non ne rimane nulla.
Più volte nel corso del film viene posta, seppur indirettamente, la questione di cosa sia giusto e cosa sbagliato, di quale sia la colpa e quale la pena corrispondente. Nel procedere degli eventi, le violenze operate a scapito della donna non solo aumentano ma subiscono una precisa evoluzione. Il primo uomo ad abusare di Grace viene connotato negativamente fin dalle prime battute del film, quindi tendiamo a non stupirci delle sue azioni, che si svolgono nell’ambiente protetto e indiscreto di una casa. Se gli altri abitanti non accorrono in soccorso è solo perché non stanno assistendo all’atto, reso visibile solo allo spettatore, o almeno così si spera. Basta poco però perché ci si accorga che in tutti gli abitanti alberga una natura ostile e maldisposta, ed è secondo questa natura che le pene e i castighi vengono distribuiti e arbitrati in città. Con estrema naturalezza l’intera Dogville accetta la schiavitù alla quale Grace viene sottoposta, accetta le catene che le vengono imposte e le violenze che è costretta a subire. Perfino Tom, guida morale e illuminata del gruppo, nonostante si professi innamorato della donna, fin da subito la utilizza come strumento per realizzare il suo goffo e paradossale tentativo di educazione all’accettazione, e rimane inerte di fronte al suo fallimento e alle nefaste conseguenze alle quali ha portato.
L’errore commesso dagli abitanti di Dogville è dei più comuni: essi non immaginano che ci possano essere diverse interpretazioni di cosa sia giusto o sbagliato, di quali debbano essere le leggi e quali le pene. È questo il dono di cui si fa portatrice Grace: con sé lei porta una diversa interpretazione della giustizia. Quando arriva nel villaggio agisce secondo la sua personale concezione della moralità: è lei stessa, affamata, a rifiutare del cibo come pena autoimpostasi per espiare la colpa di aver rubato un osso al cane dei vicini. Durante la sua permanenza a Dogville, la donna accetta ogni violenta imposizione, attendendo un’evoluzione o una risoluzione positiva per la sua condizione. E quando gli abitanti del villaggio giungono a compiere l’atto finale di questa parabola discendente di abusi, ovvero denunciano la fuggitiva ai gangster che la stanno cercando, le carte in tavola si capovolgono e l’attesa paziente di Grace viene ricompensata.
Scopriamo che proprio nei suoi inseguitori la donna può trovare una via di fuga: chi la stava cercando infatti, non era che il padre, capo di una banda di criminali mafiosi. E allora da cosa scappava? Scappava dalla sua incapacità di accettare una diversa idea di giustizia. Grace viene accusata dal padre della stessa colpa che noi spettatori siamo portati ad attribuire agli abitanti di Dogville: di arroganza. Lei giudica con l’‘arrogante presunzione’ del fatto che le circostanze possano sempre giustificare la barbarie della natura umana.
BIG MAN: A deprived childhood and a homicide really isn’t necessarily a homicide, right? The only thing you can blame is circumstances. Rapists and murderers may be the victims, according to you, but I – I call them dogs; and if they’re lapping up their own vomit, the only way to stop them is with the lash.
GRACE: But dogs only obey their own nature, so why shouldn’t we forgive them
BIG MAN: Dogs can be taught many useful things, but not if we forgive them every time we obey their own nature.
E allora forse il film ci mostra un secondo morso, un secondo ostacolo spezzato: Grace supera le sue convinzioni e guarda gli abitanti di Dogville sotto un’altra luce. Non sono più vittime di una natura perversa e di circostanze svantaggiate, sono la rappresentazione della miseria umana, e per questo, ora che ne ha il potere, ora che può essere giudice delle loro pene, ha il dovere di fare giustizia “per il bene dell’umanità”. Ora è Grace a stringere i denti e ad ergersi giudice inflessibile, ma il circolo di violenza non viene interrotto, come un cane che si morde la coda.