Cosa ci manca

di Victor Attilio Campagna

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Tre esempi di “morso” letterario, capaci di scardinare il classicismo della narrativa e rivoluzionare l’idea di romanzo: la Woolf, Kafka e Calvino. Uno dei loro segreti fu la capacità d’attesa, nel dilatare il tempo del libro senza la fretta di con-vincere il lettore.


Ormai dal 1997 all’Italia manca un premio Nobel per la Letteratura. 18 anni in cui non è emerso un letterato, poeta o prosatore, ritenuto degno d’essere investito di questo prestigioso riconoscimento internazionale.

Certo, molti scrittori non hanno vinto il premio Nobel e sono comunque riconosciuti come grandi rivoluzionatori della letteratura mondiale. Il Nobel, infatti, compone un giudizio non tanto sulla grandezza di uno scrittore, ma sulla capacità di una nazione e di un ambiente culturale di produrre della grande letteratura. Nei fatti non si hanno né vincitori, né vinti, bensì una continuità impermeabile dove domina incontrastata la coscienza di come la letteratura, adesa ad un’espressione nazionale, non sia altro che un sottile fil rouge. Il Nobel riconosce moti intellettuali e letterari e ne risveglia l’attenzione. I premi letterari, infatti, non sono riconoscimenti assoluti di un talento, bensì espressione di un gusto socio-culturale.

La più parte dei Grandi ha teso non tanto a riconoscersi in un gusto contemporaneo, ma ha come intuito la piccolezza dell’uso, in forza di una nuova idea, di un moto tellurico, composto di radici, arbusti e possibilità. Questo intuito costituisce il morso che spezza, spesso corredato da un’agnizione non immediata: Joyce dovette aspettare 14 anni perché il suo libro, una volta concluso nel 1922, fosse pubblicato per intero.

Parimenti Virginia Woolf, con Mrs. Dalloway ha scoordinato la concezione di interesse narrativo, in forza di un tempo più profondo, quello interiore. Ovviamente la filiazione di questo vento è la manifestazione improvvisa di nuove esigenze, mosse dalla Psicanalisi, dalla massificazione e da tutta una serie di rivoluzioni interiori, percepite e intese da una letteratura che andava cambiando l’idea complessiva di quel che significa Storia. Si può dire che Virginia Woolf abbia illustrato come il concetto di temporalità sia estremamente diverso dai grandi romanzi realisti e romantici: si passa da una modalità temporale estesa, ma riassumibile in poche righe, ad una compressa, in cui la trama perde spessore, diventa solo un orpello, un’occasione.

«La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei»1.

Così l’incipit di una narrazione fantasma, in cui lo stream of consciousness diventa il moto perpetuo dell’esistenza di ognuno di noi. È da qui che parte un nuovo giudizio dell’uomo e della sua motilità nel mondo, questo il morso che spezza e spazza via una tradizione fatta di trame fitte, complicate, forti di un’indagine psicologica diffusiva, ma incapaci di trarre una conclusione sull’effettiva capacità spaziale dell’uomo, perché l’attesa non è fatta di anni, ma di giorni. In questo la Woolf ha posto radici imprescindibili, infatti ha mostrato magistralmente come il tempo, nel suo senso d’attesa futuribile, si basi su contesti relativi, interscambiabili, nonché profondamente veritieri nella sua percezione essenzialmente falsata. Questa impresa l’ha consacrata alla Storia.

Su quest’onda troviamo un altro versante della risacca: Kafka. In lui il giudizio tout court è fondamentale: l’uomo è sempre chiamato a rispondere di una colpa. È interessante piuttosto il modo in cui questo grandissimo scrittore ha teso il giudizio come condizione esistenziale: da Il Processo, fino a La Metamorfosi, Kafka ha tracciato un’attenta analisi di ciò che significa giudicare e attendere un giudizio. Costante è il fattore della colpa accettata, seppur incomprensibile. Josef K. e Gregor Samsa, rispettivamente protagonisti de Il Processo e La Metamorfosi, sono l’incarnazione di una realtà incapace di capire il proprio ruolo, nonché la propria identità: in un momento di profondo cambiamento sociale, quel che più pare agognare Kafka è il raggiungimento definitivo di un’identità, reso impossibile dal contesto stesso in cui si muove l’esistenza. Questa considerazione, amara tanto quanto veritiera, ha scardinato profondamente il modo d’intendere il romanzo: non abbiamo delle forze in gioco, delle trame, ma dei fitti misteri, con venature comiche, in cui l’umorismo nero si fa da contrappunto ad una constatazione veramente amara, ossia che in un contesto massificante è impossibile raggiungere una ragione; il mondo della burocrazia, nonché la società, è indisposto ad intendere il dispiacere, la pena, l’innocenza di chi si ritrova ad essere differente. Questa concezione del diverso non è stata affrontata che da pochissimi con l’efficacia messa in gioco da Franz Kafka, ma non basta: che cos’è il romanzo? Dobbiamo sempre porci questa domanda prima di leggere l’autore Cecoslovacco, perché è fondamentale; capire Kafka significa prima di tutto capire che idea ha di romanzo. Anzitutto non si considerava uno scrittore, tant’è che chiese al suo migliore amico, Max Brod, di bruciare la sua opera. Per fortuna non ne ebbe il cuore. Kafka non riteneva i suoi romanzi degni di entrare nel mondo della letteratura, perché i suoi non sono romanzi ma verità, pittate sincere e crude di una realtà ingarbugliata dalla progressiva impossibilità di raggiungere una qualsivoglia soluzione, vetta, conclusione: solo la morte riscuote il successo della soluzione, perché annichilisce ogni domanda e lascia l’imbarazzo di una comicità involontaria in tutto quel patimento insopportabile. A quanto pare Kafka, leggendo Il Processo ai suoi amici, suscitò grandi risate nei convitati. Questo significa più di molte interpretazioni possibili, perché nell’assurdo dell’esistenza l’unica soluzione è riderne. In sintesi sono due i morsi in Kafka: la risata e la morte, in questo sta il giudizio e l’esito de Il Processo (del resto l’I King di questo numero è fortemente correlato alla giustizia). Niente di più rivoluzionario.

Rimane in quest’orizzonte di grandi rivoluzioni forse la più importante, nonché la più recente. Questa è la rivoluzione messa in atto da Italo Calvino, in particolare col suo capolavoro: Se una notte d’inverno un viaggiatore. Per intenderci, in questo romanzo non c’è una trama, ma tante storie, possibilità, che si intrecciano: sono tutta una serie di incipit, che stridono con l’idea di romanzo lineare. Sin dall’inizio tutto appare straniante:

Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: «No, non voglio vedere la televisione!» Alza la voce, se no non ti sentono: «Sto leggendo! Non voglio essere disturbato!» Forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida: «Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino!» O se non vuoi non dirlo; speriamo che ti lascino in pace2.

Questo credo sia l’incipit meglio congeniato e più rivoluzionario della Storia della letteratura. In questo libro si sviluppa un dialogo alternativo col lettore, un dialogo diretto, che c’è sempre stato in letteratura, ma mascherato, in quanto il narratore si è sempre fatto superiore al lettore. Qui Calvino si pone per la prima volta sullo stesso piano del lettore e gli regala dei consigli per leggersi in pace il libro («Prendi la posizione più comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato»3), perché tutto fa gioco: la letteratura è anche e soprattutto sperimentazione, in questo sta il morso di Calvino. Pochi sono andati tanto in là quanto costui con un romanzo, dove s’è dimostrato che lo scrivere non è una stasi, ma un’evoluzione. È proprio col concetto di incipit ripetuti che Calvino ci trasporta in un’atmosfera onirica, in cui i titoli dei capitoli formulano una storia essi stessi. Da queste premesse è iniziata la rivoluzione, una rivoluzione in cui la letteratura si fa coeternazione del lettore. I grandi di oggi, quali Forster Wallace e Moresco, hanno tentato di ridare forma a queste possibilità, con una sola coscienza: il letterario è prima di tutto libertà raggiunta. Uno scrittore non può dichiararsi rivoluzionario senza aver raggiunto un obiettivo fondamentale: la riscoperta e il rimaneggiamento della materia scrittoria e reale. Solo su queste basi si può avviare una rivoluzione in letteratura, che manca da tanto, troppo tempo in Italia, dove i romanzieri, a parte le solite e salvifiche eccezioni, tendono a produrre romanzi di comodo, senz’alcuna velleità innovativa, se non nelle trame e nella citazione pleonastica di nuovi mezzi di comunicazione; in sintesi, non basta scrivere iPhone per fare un romanzo sperimentale: Calvino in questo è maestro, perché dalla pochezza tecnologica della sua epoca ha prodotto uno dei romanzi più importanti e innovativi della storia della letteratura. Questa lacerazione del momento ha davvero cambiato l’idea e le possibilità della letteratura contemporanea.

Ora viene la risposta: cosa ci manca? Le basi ci sono, piuttosto manca un qualsivoglia stimolo. Ormai le grandi case editrici puntano sulle trame, non leggono più i libri tout court, bensì chiedono all’autore storie che (con)vincono, ossia dei riassunti di trama. Su queste basi come può animarsi una rivoluzione letteraria? Resta fondamentale considerare come rivoluzione e capacità di giudizio siano strettamente legate (morso che spezza appunto). Per questo le storie non sono sinonimo di innovazione: chiunque le può riprodurre, anche oralmente. Esse non bastano assolutamente a determinare l’eccezionalità di uno scrittore. L’azione rivoluzionaria in un contesto di questo tipo è possibile solo in forme anonime e poco pubblicizzate.

La ragione principale per cui l’Italia attende un premio Nobel da 18 anni è l’assenza totale di rimaneggiamento e prospettiva, perché non conviene. Altrimenti non si finisce sullo scaffale delle novità.


Note:
1. V. Woolf, La signora Dalloway, tr. it. e cura di Nadia Fusini, Feltrinelli, Milano, 1993.
2. I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Mondadori, Milano, 1994, p.3.
3. Ibidem.

Autore

  • Tre anni di Lettere Antiche, ora a Medicina e Chirurgia. Per non perdere l'identità si rifugia nella letteratura, da cui esce solo per scrivere qualcosa. Può suonare strano, ma «Un medico non può essere tale senza aver letto Dostoevskij» (Rugarli).

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