Il Tao della vittoria

di Gastone Breccia

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Come conciliare il pacifismo taoista col bisogno di difendere un impero? L’arte cinese della guerra insegna a vincere senza combattere, a sfruttare i vuoti dell’avversario rendendo i propri soldati fluidi come molecole d’acqua.

Quello che chiamiamo esercito – un gruppo di uomini armati destinato a combattere per l’interesse della comunità – è uno strumento antico quanto le prime società organizzate;

la scienza strategica, ovvero il pensiero che si fa azione per impiegare l’esercito nel modo più giusto ed efficace, è invece molto più recente. I primi a produrre opere destinate all’educazione di chi doveva guidare un esercito – quindi veri e propri trattati di strategia – furono i maestri cinesi del periodo classico, o periodo degli «Stati combattenti» (IV-III secolo a.C.), dei quali il più celebre è certamente Sunzi, il «maestro Sun», autore dei Tredici capitoli (o Arte della guerra), un breve compendio di filosofia della guerra che costituisce ancor oggi uno dei testi più letti e commentati dell’intera tradizione militare di ogni epoca e cultura.

Punto di partenza del pensiero strategico cinese è il desiderio di seguire il Tao, ovvero la Via, l’armonia tra gli inevitabili opposti che caratterizzano l’esistenza di «ogni cosa sotto il cielo» secondo i precetti di Laozi, il «Vecchio maestro»; e il miglior modo per farlo è in primo luogo non discostarsene volontariamente. L’uso della violenza è quindi scoraggiato, a meno che non serva a restaurare l’equilibrio; anche in questo caso, dal momento che essa è difficile da circoscrivere, ed è anzi capace molto spesso di generare maggior disordine nelle cose, il minimo uso della violenza è segno di saggezza e abilità militare. In altre parole, la miglior guerra è quella che non viene mai combattuta, perché il comandante è in grado di scongiurarla facendo ricorso ad ogni tipo di espediente anche non strettamente militare; viene quindi la guerra vinta con il minimo spargimento di sangue, utilizzando stratagemmi, sorpresa, spionaggio; infine, ed è prova spesso della scarsa capacità di chi guida un esercito, la più detestabile è la vittoria pagata a prezzo di grande spargimento di sangue e spreco di risorse materiali, che prevede battaglie e assedi, e promette – proprio a causa dell’enorme disordine creato – di dover essere ben presto ripetuta dai suoi attori, legati dalla loro stessa mancanza di fantasia, creatività e saggezza a ripercorrerne i tragici sentieri.

Ma la contiguità tra la filosofia taoista di Laozi e il pensiero strategico dei maestri cinesi del periodo classico non riguarda soltanto la concezione generale della guerra. Anche nella prassi tattica, nell’invito a saper interpretare le circostanze del reale, a rinunciare ad ogni rigidità per adattarsi agli eventi, a riempire i vuoti e vanificare i colpi del nemico rendendosi privi di forma vi è un’evidente sovrapposizione con i poetici insegnamenti del «Vecchio maestro». Modellare la propria condotta su quella dell’avversario, cedere di fronte al suo impeto e colpirlo di sorpresa dove è più debole sono principi basilari dell’arte militare orientale, che combaciano perfettamente con la filosofia del Tao, e che troviamo nel sesto dei Tredici capitoli di Sunzi:

La disposizione delle truppe deve somigliare all’acqua. Come l’acqua, nel suo movimento, scende dall’alto e si raccoglie in basso, così le truppe devono evitare i punti di forza e concentrarsi sui vuoti. Come l’acqua regola il suo scorrere in base al terreno, così l’esercito deve costruire la vittoria adattandosi al nemico. Gli eserciti non hanno equilibri di forze costanti, così come l’ac- qua non ha forma costante. Chi sappia afferrare il successo ba- sandosi sul mutare delle forze nemiche merita l’appellativo di «sovrannaturale» [1].

Un buon comandante deve ordinare e muovere il proprio esercito tenendo a mente la forma dell’acqua, dunque. Inafferrabile per definizione, essa rappresenta la metafora più efficace della via per la vittoria, che verrà raggiunta solo se si riuscirà ad essere al tempo stesso flessibili, imprevedibili, cedevoli e travolgenti, rapidi e all’occorrenza inarrestabili…

Sunzi insiste sul principio di opporre sempre debolezza a forza, forza a debolezza; colpire il vuoto dell’avversario, ma affrontare con un vuoto il suo pieno. Quando si attacca, bisogna scagliare le proprie forze migliori dove il dispositivo nemico è più fragile, in condizioni di netta superiorità locale; contemporaneamente, però, bisogna sottrarsi ai suoi colpi, ovvero opporre cedevolezza alla sua forza dove questa sia concentrata e preponderante, rendendola vana. Tutt’altro che facile: per questo il generale, una volta compiute le proprie valu- tazioni sulla disposizione dell’esercito avversario, deve agire con fulminea scelta di tempo, mettendo in moto i propri reparti con l’arte di un pugile che nello stesso istante colpisce e schiva. Il modo migliore per riuscire nell’intento, scrive ancora Sunzi, è quello di adottare una linea di condotta imprevedibile; attaccare di sorpresa dove il nemico è impreparato, e insieme confonderlo, attirandolo con l’inganno verso falsi obiettivi:

Fare in modo che le truppe dei tre eserciti possano sostenere con sicurezza l’urto nemico senza essere travolte è una que- stione di manovre regolari e irregolari. Dare all’esercito la for- za d’impatto che ha una macina scagliata su delle uova è una questione di vuoti e pieni. In ogni conflitto, le manovre regolari portano allo scontro, e quelle imprevedibili alla vittoria. Chi è abile nel sortire bizzarri stratagemmi è inesauribile come il Cielo, la Terra e i grandi fiumi [2].

È questo l’insegnamento fondamentale del maestro Sun, fatto proprio dal pensiero militare cinese, che da lui ha tratto ispirazione: se non si può vincere la guerra senza combatterla, bisogna condurla in modo imprevedibile, e cercare, attraverso la sorpresa, di sfruttare le debolezze del nemico, evitando il confronto diretto con la sua forza principale. Più di due millenni dopo, Mao e Giap trovarono il Tao della vittoria studiando e applicando questi principi; ed ancor oggi è la sola via che può portare a un successo senza distruzione, l’unico che valga la pena di conquistare sul campo.


Note:

  1. Sun Tzu, L’arte della guerra, cura e traduzione di R. Fracasso, Roma, Newton Compton, 1994 (riprodotto in L’arte della guerra. Da Sun Tzu a Clausewitz, a cura di G. Breccia, Torino, Einaudi, 2009, pp. 8-32 , p. 17).
  2. Sun Tzu, L’arte della guerra, cit., p. 14.

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Autore

  • Insegna storia e letteratura bizantina all’Università di Pavia (Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali di Cremona). Appassionato di storia militare. È redattore esterno de La Tigre di Carta.

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