di Giulio Giorello
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Lo sviluppo della matematica presenta una dialettica ben lontana da un cammino pacifico. Dalle previsioni di Hobbes e Spinoza, passando per le geometrie non euclidee, l’esempio contemporaneo di Grothendieck mostra che il matematico ha il diritto di creare ma anche il dovere di resistere.
Nel capitolo quarto della Parte I del Leviatano (1651), nello stesso contesto ove celebra le virtù della geometria, Thomas Hobbes riconosce la praticità dei termini universali: solo chi «ha l’uso della parola» riesce «coraggiosamente», muovendo dalla definizione di triangolo, a «registrare in termini generali [che] la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a due retti», mentre chi è senza parole, per esempio «chi è nato e rimane completamente sordo è muto» non perviene ad alcuna «regola universale» circa i triangoli, e può solo constatare quell’uguaglianza in questo o quel caso particolare. Ma sempre in quel volume (e nella medesima Parte I), per illustrare l’onnipotenza – o meglio la prepotenza – della politica, il filosofo inglese prende quel tipico esempio di certezza in geometria per insinuare che, se mai un giorno si scoprisse che tale proposizione «è contraria agli interessi di chi ha dominio», non si esiterebbe a «bruciare tutti i libri di geometria»! Di tono apparentemente contrario sembra la constatazione dell’olandese Baruch Spinoza qualche anno dopo (1675), per cui una proposizione come quella che afferma che la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a due retti non potrà essere negata da alcuno, a meno che costui «non sia sano di cervello, e sogni spiriti immondi che ci ispirano idee false». Per la cronaca, la citazione è tratta dalla Lettera 76 dell’Epistolario indirizzata all’ex discepolo e amico Albert Burgh, originariamente calvinista ma passato nelle file del “papismo”, il quale considerava “empio” il Trattato teologico-politico che Spinoza aveva pubblicato anonimo nel 1670.
Eppure non furono certo ispirati da «spiriti immondi» i matematici che crearono più di un secolo dopo le geometrie dette non euclidee, che appunto contestano quella proposizione di cui Hobbes e Spinoza si dichiararono entrambi certi, né tantomeno erano dei corrotti al servizio di qualche potere politico. In realtà, è proprio la mediazione linguistica di cui Hobbes tesseva le lodi a farci capire come la proposizione euclidea dipenda dalle premesse della stessa geometria di Euclide; ed è cambiando queste (Spinoza direbbe: considerando triangoli di altra “natura”) che cambia anche il teorema da cui abbiamo preso le mosse; infatti, Euclide, per ottenerlo, sfruttava un postulato che si è rivelato a esso equivalente: il celebre V Postulato. Non staremo a raccontare qui la vicenda, per altro assai nota, di quella che nell’Ottocento era considerata una vera e propria “rivoluzione in geometria”, ove Gauss, Bolyai e Lobačevskij – per non dire Riemann – erano salutati come i Copernico, i Bruno, i Keplero o i Galileo della conoscenza matematica. Valga per tutti l’atteggiamento del matematico e filosofo britannico William Kingdon Clifford, che coglieva con acutezza uno dei tratti peculiari di quella incruenta “rivoluzione”: non veniva decapitato nessun re, né tantomeno Euclide; ma la scoperta di geometrie non euclidee cancellava il monopolio della geometria euclidea per la concezione dello spazio, con buona pace del Dio creatore della teologia naturale o dell’Io Trascendentale della filosofia kantiana, che entrambe ci avevano voluto abitanti di un mondo in cui la somma degli angoli interni di un triangolo è necessariamente eguale a due angoli retti. (Sia lecito il riferimento a V. K. Clifford, Etica, scienza e fede, trad. it. S. Bourlot, Bollati-Borighieri, Torino 2013, e anche l’introduzione dei curatori C. Bartocci e G. Giorello).
La comparsa delle geometrie non euclidee è solo una delle tante vicissitudini del sapere geometrico tra Ottocento e Novecento; e qui rimando a un libro che spero i lettori troveranno illuminante, il bel volume di Claudio Bartocci, Una Piramide di problemi. Storie di geometrie da Gauss a Hilbert, Raffaello Cortina, Milano 2012. Tutte queste “storie” e altre ancora mostrano come lo sviluppo della matematica presenti una dialettica interna ben lontana da un cammino pacifico e lineare che si limiti semplicemente a estendere il campo delle conoscenze. Questo aspetto, a mio parere, era stato colto a suo tempo dal filosofo della scienza Imre Lakatos: «Non si consegue mai la certezza, i fondamenti non si raggiungono mai, ma l’astuzia della ragione tramuta ogni aumento di rigore in un aumento di contenuto» (I. Lakatos, Dimostrazioni e confutazioni. La logica della scoperta matematica, a cura di J. Worrall ed E. Zahar, trad. it. Feltrinelli, Milano 1997, p. 97).
Ben sappiamo come a suo tempo Galileo Galilei nel Saggiatore (1623) ritenesse che Dio ci aveva elargito, oltre alla Sacra Scrittura che serve per andare in cielo, anche il grande Libro del mondo, scritto appunto in caratteri matematici. Ma le rivoluzioni matematiche di cui sopra si è parlato e le stesse rivoluzioni della fisica da Einstein a Dirac, ci hanno fatto capire che in realtà siamo di fronte a un intera biblioteca di volumi scritti con numeri e figure, talvolta incompatibili gli uni con gli altri, ma globalmente capaci di farci procedere nella comprensione critica dell’universo in cui viviamo. L’enfasi sulla parola critica è essenziale perché indica quell’atteggiamento ostile a qualsiasi forma di “dominio” che non sia capace di mettere in discussione se stesso: se ci fosse stato davvero qualche politicante che avesse preteso di bruciare gli Elementi di Euclide o qualsiasi altro testo di matematica, non so come avrebbe reagito Hobbes in quell’occasione; ma sono sicuro che Spinoza avrebbe protestato vigorosamente, definendolo «il più squallido tra i barbari».
Per riprendere Lakatos, il suo Dio matematico ci concedeva anche nel caso di figure e numeri di escogitare congetture e poi controllarle: non era molto diverso dal Dio di quei (pochi) teologi libertari che all’epoca delle guerre di religione mettevano in luce il carattere non definitivo delle «dispensazioni del Signore» e ritenevano che fosse legittimo opporsi con ogni mezzo «all’iniquità e al torto». Per Lakatos, la forma attuale della dispensazione del Signore è la scienza, intesa come rete di ipotesi audaci, di critica spregiudicata e di tecniche efficaci. E se è vero che tutto ciò è reso possibile dalla scoperta di matematiche sempre più “belle”, questo significa che l’esperienza del matematico è un’esperienza di libertà (si vedano i saggi raccolti in Paul A. M. Dirac, La bellezza come metodo, prefazione di Vincenzo Barone, Indiana Editore, Milano 2013). Del resto, per riprendere Spinoza, (autore caro anche a Lakatos), «le dimostrazioni [matematiche] sono gli occhi della mente», come si legge nella Parte V dell’Etica. E non si pensi che ciò valga solo per le epoche eroiche del passato. Nel 1913, più precisamente in un saggio dal titolo “L’uomo matematico” (si veda il volume I di Saggi e Lettere, a cura di Bianca Cetti Marinoni, Einaudi, Torino 1995, in particolare p.17), Robert Musil individuava nella matematica «un’ostentazione di audacia della pura ratio, uno dei pochi lussi oggi ancora possibili». Confesso, contro ogni retorica pauperistica, di amare il lusso, o almeno un lusso di questo tipo, che consiste non solo nell’ampliare il settore del sapere, ma nel ristrutturarlo incessantemente, individuando problemi nuovi che sfidano occhi e mente. I lettori che avessero intenzione di concedersi una scorribanda in quello che chiamerei il multiverso della matematica, possono sfogliare i bellissimi quattro volumi La matematica, curati da Claudio Bartocci e Piergiorgio Odifreddi (Einaudi, Torino 2007-2011). Di mio, trovo particolarmente significativa la “Matematica ribelle” sviluppata a partire dagli anni Cinquanta del Novecento dal grandissimo Alexander Grothendieck, in particolare nel contesto di una rinnovata geometria algebrica. Non è questa la sede per addentrarci in dettagli tecnici; ma chi volesse saperne di più puó consultare il bel saggio di Luca Barbieri Viale e Claudio Bartocci dal titolo “Il potere dell’innocenza”, nel volume collettivo Matematica ribelle. Le due vite di Alexander Grothendieck, curato da Antonio Carioti e pubblicato dal Corriere della Sera, in occasione (2014) della dipartita del matematico.
Segnalo anche l’articolo di Gabriele Pichierri in questo stesso numero della rivista, anche per la sua capacità di collegarsi al tema generale del numero. Poiché questo riguarda la metafora dell’esercito, mi pare interessante aggiungere che Grothendieck mi ricorda alquanto un celebre personaggio simbolico di Karl Popper: il soldato che sosteneva di essere l’unico che marciava al passo giusto mentre l’intero battaglione era fuori tempo. E così genialmente insubordinato in nome dello stesso rigore è stato Grothendieck: dentro la matematica e fuori di essa, lui che aveva conosciuto sulla propria pelle il peso della discriminazione, dell’oppressione e della violenza. È noto che le autorità costituite non amano che negli eserciti ci si comporti così; eppure, chi ha il coraggio di staccarsi dal plotone non solo è un campione di individualismo, ma è anche qualcuno che col proprio esempio permette agli altri di lavorare in modo nuovo e proficuo: almeno così accade in matematica, ma anche nello studio della natura, nelle arti e nella stessa tecnologia. André Weil, che era stato definito il “quasi dittatore” del gruppo Bourbaki, sosteneva che la motivazione più forte per il lavoro creativo del matematico si celava nelle «oscure analogie» che potevano venir colte almeno a tratti dall’esame delle strutture astratte: si trattava di «indistinti riflessi fra una teoria è l’altra: queste carezze furtive, queste indecifrabili foschie». Grothendieck amava riprendere questa immagine del suo grande maestro, sottolineando però che prima o poi occorre dissipare la nebbia, dal momento che in matematica come in politica o in filosofia la via maestra per risolvere i problemi «è far uscire nuovi concetti dall’oscurità». (Per queste citazioni sia lecito il rimando alla mia introduzione nel citato volume curato da Carioti).
In conclusione, per tornare al punto da cui siamo partiti, il matematico ha il diritto di creare (Hobbes) ma anche il dovere di resistere (Spinoza).
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