I giapponesi: un esercito di nani armoniosi

di Andrea Pancini

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I cinesi che, nell’I King, descrivono una moltitudine di contadini che diventa esercito attorno a un centro d’aggregazione, declassano il popolo vicino – i giapponesi – a una massa di nani chini a raccogliere il grano, e gli impongono un ideogramma che li descrive come il ‘centro del mondo’.

Che ruolo svolgono nella definizione identitaria dei popoli gli etnonimi? E cosa succede se in un’etnia si afferma l’uso dell’eso-etnonimo al posto dell’endo-etnonimo [1]? In tal senso il Giappone ci offre un esempio piuttosto significativo. Sino agli ultimi secoli a.C. infatti, nessuno aveva mai nominato gli abitanti dell’arcipelago giapponese per iscritto. È un breve cenno dello Hanshu, libro della dinastia cinese Han risalente al I secolo a.C., a far luce sul popolo giapponese. Il suo autore scrisse:

Ho appreso che al largo della penisola coreana vivono i wo. Sono organizzati in oltre cento stati. Vengono periodicamente a renderci omaggio con tributi [2].

L’eso-etnonimo wo, d’ora in avanti riportato secondo la pronuncia sino-giapponese wa, è scritto con il sinogramma 倭. Se si analizza la composizione interna del carattere, si fa un’interessante scoperta. Wa è composto da tre elementi distinti. A sinistra il radicale 亻, variante di 人, significa persona o persone. A destra, invece, troviamo: in alto 禾, che rappresenta la spiga dei cereali, in basso 女, che significa donna. Questi due caratteri riflettono l’immagine di una donna chinata a raccogliere delle spighe, probabilmente di riso. Per questo motivo, l’origine etimologica dell’etnonimo wa rimanda a delle persone piegate nelle risaie intente a lavorare, quindi docili e sottomesse. Gli Han, tuttavia, erano perfettamente consapevoli della lunga storia alle spalle dei cinesi e non solo, erano fermamente convinti di essere culturalmente superiori a tutti gli altri popoli loro vicini. Questo sinocentrismo fece prevalere l’immagine chinata e accucciata dell’etimologia di wa, dando un connotato dispregiativo alla parola, che finì per significare “nano” [3]. L’arcipelago giapponese quindi, era abitato da una moltitudine di nani. Tutto ciò non deve sorprendere. Gli eso-etnonimi sono frequentemente dispregiativi. L’intento era duplice: da un lato la parola wa permetteva di fare una descrizione sommaria di una popolazione sconosciuta, dall’altro rafforzava l’identità etnica e la coesione degli Han. I cinesi cosa avrebbero avuto da temere da dei nani, dopotutto?

La scrittura cinese si diffuse in Giappone solamente molti secoli dopo la redazione dello Hanshu, per la precisione attorno al V secolo d.C.; ciononostante, si sarebbe dovuto aspettare il consolidarsi dello stato centralizzato nell’VIII secolo perché la corte giapponese iniziasse a mostrare interesse per la compilazione di opere sulla propria storia, quali il Kojiki e il Nihongi. Il sinogramma wa era ormai entrato nell’uso comune per descrivere il popolo giapponese nei documenti ufficiali. I nani erano stati imbrogliati: il carattere che era stato loro insegnato, in cinese aveva una sfumatura peggiorativa. Era quindi necessario un compromesso: trovare un nuovo wa che potesse innanzitutto veicolare un’immagine rispettabile, e al contempo rispecchiare l’ethos giapponese. La scelta ricadde sul seguente carattere 和, ugualmente pronunciato wa. È analizzando nuovamente gli elementi costitutivi del sinogramma che riusciamo a comprendere il perché di tale scelta. Il radicale a sinistra è la spiga 禾, che abbiamo già incontrato. Questo evidenzia una certa continuità con il precedente carattere e fa parte di un compromesso. L’elemento a destra è 口, che significa bocca. Una spiga e una bocca, dunque. La spiga abbraccia di nuovo un’area semantica ampia: rimanda alla flessibilità e all’ubbidienza. La bocca invece parla. Il carattere perciò rimanda all’immagine di un discorso pronunciato in maniera conciliante e servizievole: il significato che i giapponesi avevano scelto per rappresentarsi era “armonia” [4].

In Giappone il carattere 和 era già comparso in un importante documento del VII secolo, conosciuto come “Costituzione dei diciassette articoli”. L’autore, Shōtoku Taishi, reggente dell’imperatrice Suiko, aveva redatto una serie di regole morali di ispirazione confuciana con l’intento di gettare le fondamenta dello stato giapponese. Il primo articolo recita:

Si darà valore all’armonia (和) e si eviteranno contrasti interni. Tutti gli uomini sono vittima dell’invidia e pochi possono vantare di essere intelligenti. Per questo motivo alcuni disobbediscono ai propri signori e alimentano faide con i villaggi dei vicini. Tuttavia, quando i superiori sono in armonia (和) e gli inferiori sono docili, tutti sono concordi tra loro e la giusta visione delle cose ha spontaneamente il sopravvento. Solo allora si potrà risolvere ogni tipo di problema [5].

La società giapponese perciò, si sarebbe dovuta costruire sul wa 和, l’armonia tra i suoi membri. Si sarebbero dovuti discutere i problemi in gruppo per poter arrivare ad una soluzione vantaggiosa per tutta la comunità. Non meraviglia quindi che gli alti funzionari di corte dell’VIII secolo abbiano deciso di definirsi con il sinogramma wa 和: la reputazione era salva e l’identità giapponese era al sicuro, sancita sulla carta da “una flessuosa spiga e una bocca”.

Più di mille anni dopo, nell’immediato secondo dopoguerra, accadde un fatto piuttosto curioso. Il governo giapponese fu ripreso più volte dalla Cina per l’utilizzo della parola “cinesi” shinajin, la quale dopo il conflitto aveva assunto una connotazione dubbia. Dopo insistenti tentativi, il governo cinese riuscì ad imporre ai “nani armoniosi” la parola chūgokujin, in uso tutt’oggi. Chūgokujin si scrive 中国人 e si traduce più o meno come “popolo del paese che sta al centro del mondo”. Tramite un gioco di specchi, l’ordine era stato ripristinato [6].


Note:

  1. In etnolinguistica si intende per ‘eso-etnonimo’ il nome che un popolo usa per descriverne un altro (es. Italians), e per endo-etnonimo il nome che un popolo sceglie per descrivere la propria comunità (es. italiani).
  2. Cfr. Toshiaki, Takeshita, Il Giappone e la sua civiltà: profilo storico, CUEB, Bologna, 2012, p. 24.
  3. Per ulteriori approfondimenti si veda lo studio di: Michael, Carr, «Wa倭 Wa 和 lexicograhpy » in International Journal Of Lexicography, Oxford, 1992, Vol. I, pp. 1-31.
  4. Cfr. Kennet G., Henshall, A guide to remembering japanese kanji, Tuttle, Tokyo, 1998, p. 152.
  5. Cfr. William, George, Aston, Nihongi, Chronicles of Japan from the Earliest Times to A.D. 697, Keagan and Co, London, 1896 vol. II, pp. 128-133.
  6. Cfr. Joshua, A., Fogel, The cultural dimension of sino-japanese relations, East Gate, USA, 1995, p. 75.

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Autore

  • Insegna giapponese alla Scuola di Lingue e Culture Orientali di Milano. Si sta specializzando in storia dell’Asia orientale all’Alma Mater Studiorum di Bologna. Oltre alla didattica del giapponese, si interessa di antropologia e storia sociale.

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