di Marco Briccola
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Due inviati ficcanaso de La Tigre di Carta strappano un’intervista a Giuseppe Piva, proprietario di una nota galleria d’arte giapponese specializzata in armature e spade d’epoca. È l’occasione per sentirsi raccontare l’arte dello “spezzare” e dell’ “attendere” così come compaiono in una cultura che le ha fatte proprie.
Federico Filippo – Il motivo per cui abbiamo chiesto il suo intervento è per l’argomento del secondo numero: si intitola Il morso che spezza e la metafora collegata al mondo militare ci ha spinti a consultare un esperto di armi e armature, giapponesi in particolare. Ci interessa però partire dal ruolo del collezionista all’interno di certi spazi, soprattutto quelli milanesi, più o meno conosciuti.
G. Piva – Io non sono un collezionista, sono antiquario: di collezionisti però ne conosco tanti e potrei rispondervi da quel punto di vista. Sono due mondi che secondo me devono rimanere separati: c’è chi fa sia l’uno che l’altro, il collezionista compra per tenere, il secondo per vendere, ma se i due ambienti si contaminano c’è sempre qualcosa che non va. Il cliente potrebbe avere la sensazione di acquistare soltanto i pezzi scartati. Io ovviamente ho qualcosa a casa, ma non le cose più belle.
Marco – Ho sempre pensato che il collezionista riesca a creare un rapporto particolare con l’oggetto proprio per la sua passione per ciò che decide di comprare. Potrebbe questa sensazione essere di ostacolo al momento della vendita?
G. Piva – No, questo no: anzi, il mio modo di comprare è esattamente quello del collezionista. La bellezza del mio lavoro è proprio il momento dell’acquisizione dei pezzi: trovo molta più soddisfazione nel momento in cui riesco a trovare un bell’oggetto rispetto a quando poi vendo effettivamente qualcosa. Quando vendo mi dico anzi che posso finalmente “andare a caccia” e tornare a comprare qualcosa. Ed è per questo che si instaura poi un rapporto con gli oggetti, oltre che nel momento dello studio, dell’indagine dell’oggetto stesso.
Marco – La sua passione per l’arte orientale? E in particolare per l’antiquariato?
G. Piva – L’antiquariato è il lavoro di famiglia. Ho lavorato per dieci anni con mio padre su dipinti e sculture antiche – Settecento italiano – mentre mio zio si occupa dell’Ottocento. Ma la passione per il Giappone l’ho sempre avuta, quindi a un certo punto ho deciso di iniziare da solo. Ho dovuto però cambiare tutto, perché il mio lavoro prima era molto circoscritto a un’area geografica, ci si occupava di arte milanese e veneziana quindi il grosso del bacino era lì. Adesso invece è il contrario, la maggior parte dei clienti è quasi tutta “fuori”.
Marco – Fa anche perizie o consulenze per collezioni personali?
G. Piva – No, è una cosa che scelgo di non fare, preferisco essere responsabile solo di quello che vendo io. È successo invece – anche poco fa – di dare il proprio parere per una collezione intera che avevano deciso di vendere. Ci deve essere però una successione ereditaria, un’assicurazione, mai sul singolo.
Marco – Come ci si sente ad avere un’attività così di nicchia? Come va il mercato dell’antiquariato in questo momento? Si sentono al proposito voci contrastanti.
G. Piva – Genericamente parlando il mercato dell’antiquariato da una decina d’anni è sceso, o meglio è sceso quello normale dell’arredamento, che ha indiscutibilmente sofferto: in realtà chi come me si rivolge ad un mercato più specifico troverà sempre un collezionista il quale – anche il lavoro gli andasse male – rinuncerà ad altro ma non all’oggetto.
Marco – Come è il suo rapporto con altri collezionisti o antiquari, non soltanto italiani? C’è voglia di condivisione o restano realtà chiuse?
G. Piva – Pur restando mondi abbastanza piccoli tra collezionisti che si conoscono tutti, per gli oggetti di alto livello è un mercato ormai mondiale. E c’è assolutamente voglia di condivisione: per esempio settimana prossima andrò a New York per una mostra che è l’evento più importante al mondo di arte asiatica, la “New York Asia Week”, e sarà un’occasione per ritrovarsi con i commercianti conosciuti.
Marco – So che è stato curatore di una mostra a Milano a Palazzo Reale riproposta poi a Palazzo Fortuny a Venezia. È stata una collaborazione interessante con i musei?
G. Piva – Era esposta la collezione di un mio cliente, quindi di un’unica persona: una splendida raccolta di armature e accessori vari. La mostra ha avuto un grandissimo successo e anche il catalogo, che è stato ristampato a Venezia, adesso è introvabile.
Marco – La sua clientela che tipo di preferenze ha per gli oggetti?
G. Piva – In linea di massima, come dicevo, mi rivolgo al mercato dei collezionisti, che molto spesso sono monotematici: c’è chi colleziona netsuke, chi elmi e armature, chi lacche. Ma c’è anche chi ama l’arte giapponese a trecentosessanta gradi e ha di conseguenza una collezione molto variegata. Chi inizia a fare del collezionismo ha delle sue preferenze estetiche e si concentra per scelta su un determinato periodo storico. Non è però una regola ferrea, la maggior parte delle persone – come me – va a gusto, la cosa più importante è che l’oggetto piaccia e sia di qualità. Il criterio di scelta è quindi soggettivo, è estetica.
Marco – Si reca personalmente in Giappone?
G. Piva – Ogni quattro mesi: lì ho un giro di amicizie di collezionisti, restauratori, musei privati che vendono e comprano.
Marco – I pezzi che tratta solitamente?
G. Piva – Io mi occupo di alcuni settori in particolare come armi, armature, netsuke, lacche, paraventi e oggettistica in generale, quando vedo qualcosa che mi piace molto: anche ceramiche quindi.
Marco – È bello che ci sia questo piacere personale e un interesse specifico nei confronti di ogni oggetto.
G. Piva – È un lavoro che considero molto divertente, si ha a che fare sempre con gente appassionata che ne dedica solo il proprio tempo libero: non è quindi un lavoro “da business”.
Marco – Lei lavora principalmente con il periodo Edo (1603 – 1868)?
G. Piva – Sì, e non solo perché è molto lungo (ride): mi vanno benissimo anche cose precedenti ma non amo particolarmente il periodo successivo, caratterizzato da una produzione raffinatissima – e spesso molto costosa – ma con un gusto estetico differente, rivolto al mondo occidentale, che diventa a tratti quasi lezioso, perdendo purezza. Quindi pur riconoscendo la bellezza di questi oggetti, non posso non trovarli proprio per questa estetica estrema “pesanti”.
Marco – Quanto il valore storico influisce sulla valutazione economica?
G. Piva – Non particolarmente: la produzione Meiji (1868 – 1912) non è molto antica, ma solo nel catalogo che stiamo sfogliando possiamo trovare oggetti da circa 300.000$. La grande richiesta del collezionismo estero influisce molto però sulla crescita dei prezzi.
Marco – I pezzi più importanti che le sia capitato di possedere?
G. Piva – Tra le armi le spade, le più antiche – anteriori al periodo Edo – tra cui quella che sto studiando in questo momento che risale al 1320-1330, un ottimo periodo per le katana, migliore per molti versi a tutti i successivi.
Marco – Che cosa pensa della produzione attuale di manufatti secondo le tecniche consolidatesi nei millenni?
G. Piva – Il Giappone ha un sistema che protegge molto l’artigianato. Ogni tipo di arte viene finanziata e promossa: bambole, metalli, ceste di bambù, vetro, oreficeria… I giapponesi possiedono da sempre meticolosità e precisione in ogni campo dell’arte e dell’artigianato, e questo momento non si può considerare quindi solo una rinascita momentanea.
Federico parla del tema del mese e chiede di definire il rapporto tra la spada – portatrice di violenza – e la tsuba, l’elsa, che con la sua funzione difensiva incarna il momento dell’attesa.
G. Piva – Le tsuba che prediligo sono quelle precedenti al periodo Edo: c’è chi preferisce quelle definite kinko, “da gioielliere”, che sono quelle più raffinate del periodo, o chi come me preferisce quelle in ferro, quindi molto più semplici con un’eleganza dovuta più alla sensibilità del disegno che non alla bravura dell’esecuzione. Non sono difficili da realizzare – non volendo considerare la qualità del ferro – ma la bellezza viene data da come è pensato e bilanciato il disegno.
A questo proposito, due anni fa c’è stata una mostra il cui tema era incentrato sul rapporto tra la funzionalità e l’estetica, fondamentale perché fin dal Medioevo ogni cosa realizzata in Giappone – anche di uso quotidiano – doveva sempre avere una motivazione estetica, soprattutto nelle cose piccole: nulla viene fatto a caso. Anche gli oggetti di uso puro venivano, e vengono ancora, realizzati con una grossissima attenzione estetica. Le tsuba, anche quando erano molto semplici, erano rese eleganti da un minimo decoro (ci mostra il catalogo di una collezione privata di tsuba del periodo Kamakura – XII sec.) come questa piccola luna intagliata: o altri esempi, come questo cappello stilizzato con due gocce d’acqua che gli piombano sopra. Basta un nulla, un fungo, due impronte, e diventano oggetti bellissimi.
Marco – La produzione delle spade nel periodo Kamakura?
G. Piva – Era di altissimo livello, la produzione migliore è stata appunto quella di metà periodo Kamakura (XII-XIII secolo).
Marco – Il pregio del collezionismo è quindi quello di aver conservato da sempre oggetti così importanti.
G. Piva – Proprio perché lo sono sempre stati: chi li ha avuti, li ha sempre curati. E ogni oggetto va maneggiato con l’attenzione che merita.
Marco – La contaminazione occidentale che effetti ha avuto?
G. Piva – È stata importantissima: il Giappone non si sarebbe unificato nel 1600 senza l’avvento degli occidentali e delle loro armi da fuoco con le quali i Tokugawa hanno riunito il Paese. Da questo derivano armature di chiara ispirazione occidentale, alcune delle quali usavano addirittura elementi portoghesi. Ed è importante considerare l’aspetto bellico quando si studiano le spade: è utile capire le motivazioni, ad esempio, per cui cambiano le forme, che sono sempre legate ad esigenze pratiche.
Federico Filippo – Per quanto riguarda le arti marziali, io ho interpretato il rapporto tra violenza e attesa secondo la dialettica dello shu-ha-ri, un concetto legato all’apprendimento.
G. Piva – C’e un concetto – chiamato kentaichi – legato all’attesa: è il rapporto in una situazione di guardia in cui si bilancia la ricerca della creazione di una possibilità di attacco con l’attesa di questa possibilità. Occorre quindi cercare di rompere la guardia dell’avversario – essere quindi attivi nella ricerca – ed essere contemporaneamente pronti ad approfittare dell’apertura della guardia del compagno nel caso questa si verifichi – nel momento di un suo dubbio o una debolezza. Si tratta quindi di conciliare due stati d’animo completamente diversi, quello propositivo e quello di verifica dell’avversario , cosa che ne rende il bilanciamento estremamente difficile ed applicabile solo ad un livello molto avanzato. Pratico Iaido e Kendo ormai da 25 anni, e mi è servito per la coltivazione dei rapporti in Giappone, soprattutto all’inizio, grazie al quinto Dan che avevo raggiunto – che mi dava una considerazione del tutto differente. L’avere maneggiato una spada in un certo modo invece non ha influito sul mio lavoro, se si parla del momento della verifica o della stima di un oggetto. Mi è servito nella misura in cui avendo frequentato maestri giapponesi da tutta la vita ho imparato il modo giusto per approcciarmi alla loro cultura e struttura sociale – basata sul gruppo – completamente diversa dalla nostra, il cui nucleo della vita è la famiglia. Il gruppo, che una volta era il clan, è diventata oggi l’azienda per cui uno lavora.
Marco – Ricordo la ricerca alla base dei cinque indici di Hofstede, secondo cui il Giappone era preso come esempio diametralmente opposto – per distanza gerarchica e dinamica confuciana – ai Paesi mediterranei o sudamericani.
G. Piva – E spesso proprio questo modo di strutturarsi comporta una serie di problemi: è uno dei Paesi al mondo con meno natalità, proprio perché la famiglia viene messa in secondo piano. È diffusa ad esempio la pratica del divorzio per posta, e tutti i rapporti vengono segnati, anche solo nel linguaggio, da questa gerarchia di gruppo: venendo promossi e salendo quindi di livello all’interno della propria azienda si cambia immediatamente giro di conoscenze e le amicizie si perdono molto facilmente. La formalità è molto importante e legata, appunto, a questa fortissima struttura gerarchica.
Marco – La percentuale di suicidi è molto elevata.
G. Piva – È vero, e le motivazioni sono spesso da ricercarsi in questa pressione a essere inseriti in un meccanismo – che si innesca fin dai primi anni di vita, addirittura dall’asilo – il cui unico scopo è quello di progredire gerarchicamente.
Marco – Un’altra pratica negativa di cui sono a conoscenza è la scelta consapevole di alcuni giovani di rinchiudersi al buio all’interno delle loro stanze isolandosi completamente dal mondo.
G. Piva – Tentare di inserirsi in questa corrente che ti vuole trascinare può spingere chi è più debole a togliersi la vita o isolarsi, che per molti punti di vista è la stessa cosa. È un altro modo di uscire dal mondo.
I giapponesi hanno poi anche dei lati bizzarri, in positivo ovviamente: per esempio giocano spesso, e per loro ogni cosa è un gioco. Vivendo nel loro Paese si notano enormi locali di pachinko (una sorta di flipper o slot machine locale), ed è importante considerare che i videogiochi – Playstation, Nintendo – li hanno inventati loro. Ci sono giganteschi locali per il karaoke, dove si divertono dopo il lavoro.
Marco – Tutto questo aiuta a riflettere sull’apertura mentale che debba avere chi decida di interessarsi alla storia, alla cultura e a un certo tipo di oggetti che sono portatori a tutti gli effetti della tradizione del loro Paese, che deve essere compresa appieno e capita al meglio.
G. Piva – Siamo comunque in grado di decidere cosa condividere e cosa no, senza volere a tutti i costi “fotocopiare” i giapponesi: bisogna sapere convivere con la propria passione condividendo gli aspetti migliori della loro cultura.
Salutiamo Giuseppe Piva che ci ricorda che a maggio organizzerà una mostra di netsuke e ne approfittiamo per dare un’occhiata alla galleria, per sfogliare qualche catalogo di tsuba e per ammirare il giardino interno, affacciato su villa Necchi Campiglio.
Giuseppe Piva – Collezionista, mercante d’arte e proprietario di una Galleria d’arte giapponese a Milano, in zona San Babila, specializzata in armature, spade e netsuke. Alimenta la passione per la cultura giapponese praticando Iaido e Kendo. Per dare un occhio alla sua galleria d’arte, clicca qui